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Quando il design cambia pelle, la spazzatura diventa di moda

Riciclare fa bene. Non solo perché si tratta di una premura speciale verso l’ambiente che ha ripercussioni positive su di noi, ma anche perché la seconda vita degli oggetti può essere all’insegna della bellezza. La storia di GarbageLab ne è la dimostrazione.
 
«Assembled design with re(f)used parts». Questo è il motto che anima il progetto, nato dall’incontro di Francesco Macrì, Daniela Bravi e Simone Colombo. Correva l’anno 2009. I tre ragazzi erano compagni d’accademia accomunati dalla voglia di diventare video maker. Poi, un’intuizione, tanto immediata quanto feconda e produttiva. Gli striscioni pubblicitari in pvc, pur essendo impermeabili e resistenti, erano condannati a “morire” dopo pochi giorni. Il loro cimitero era il macero. Da qui l’idea di fondare GarbageLab. «Confezionare borse con una storia, riutilizzare materiali non vuol dire solo rispetto per l’ambiente, ma anche dare vita a prodotti nuovi, fashion, con carattere e personalità».
 
Ma come funziona, in concreto, la creatività targata GarbageLab? Gli striscioni forniscono la materia prima per dar vita alle borse, le cui tracolle sono realizzate partendo dalle cinture delle automobili. I modelli sono standard, ma ogni manufatto è unico, in quanto i manifesti non vengono dipinti. Ogni combinazione di colori e lettere è ritagliata in modo tale da suggerire un nuovo disegno. «Ogni borsa è diversa, curata nei dettagli, fatta per durare a lungo sia in una metropoli che su una spiaggia. Concept bags piene di vitalità urbana, fatte a mano con passione, con essenza un poco artistica, un poco eccentrica, a volte minimal».
 
GarbageLab è simile a una piccola, instancabile formica: attualmente fattura circa 250.000 euro l’anno, di cui circa il 20% proviene dalla vendita di gadget realizzati per i bookshop dei musei. «Vogliamo essere percepiti come un marchio ecologico ma soprattutto di moda. Se la nicchia delle persone attente all’ambiente sa già come trovarci, l’ambizione è di far diventare questi oggetti di tendenza e farli arrivare a un pubblico più grande». E la genuinità del progetto sicuramente lo merita.
 
 
 

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La start up ha bisogno di aiuto … e arriva il business angel

Gli angeli esistono? Molti se lo chiedono. Rispondere è difficile, in assenza di prove concrete. Di certo, sono una realtà in carne e ossa nel settore economico. Stiamo parlando dei business angel, imprenditori che scelgono di investire capitali ed esperienza in aziende emergenti. Ciò che li caratterizza è il giusto mix tra coraggio e lungimiranza, ingredienti necessari ma non sufficiente di una redditizia diversificazione degli investimenti.
 
Cosa fa un business angel?
Questa figura è una sorta di guida. Il suo, infatti, non è un supporto meramente finanziario. A fare le differenza è la capacità di creare nessi e collaborazioni con l’impresa finanziata, che viene quindi affiancata nelle più diverse attività (stesura del business plan, creazione di know how, ampliamento della rete commerciale…)
 
In quali settori opera?
Medicina e biotecnologia, hi tech ed energia. E’ in questi ambiti che si muove, di solito, il business angel. La ragione è facilmente intuibile: sono queste le aree in cui tende il più alto tasso di innovazione, specializzazione e crescita. In poche parole, i tratti distintivi delle start up, in base alla definizione che ne dà la legge 221 del 2012.
 
 Il “quadro” italiano
I business angel nostrani hanno dato vita nel 1999 all’IBAN (Italian Business Angel Network), associazione no-profit con personalità giuridica. Questo organismo seleziona le aziende emergenti orientate all’espansione nei paesi europei e non solo, e le mette in contatto con gli imprenditori intenzionati a investire.
 
 
I punti di forza
Come abbiamo già accennato, il business angel non si limita a tirare fuori i capitali. Offre un valore aggiunto fondamentale e prezioso: la fiducia nel progetto finanziato. Interviene condividendo sforzi e sacrifici. Ciò che lo distingue dalle banche, quindi, è il fatto che differenzia anche la motivazione, oltre agli investimenti. Perciò, guadagnare non è il suo unico obiettivo.
 

 

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Nano-prestito, così l’economia combatte l’illegalità

Combattere grandi problemi, a volte, significa (ri) partire dal piccolo. Infondergli forza e irrobustirlo. Il nano-prestito è stato introdotto di recente per contrastare l’usura. Attualmente è in fase di sperimentazione in alcune zone; l’auspicio è che possa estendersi “a macchia d’olio” in tutta Italia. L’intento è chiaro: dare a famiglie e aziende uno strumento efficace per difendersi dai disastrosi effetti della crisi.
 
 
Troppo spesso, in passato, privati e imprenditori, all’ennesimo porta sbattuta in faccia da banche e finanziarie si sono convinti di essere spacciati. E quando ti senti con le spalle al muro, la disperazione ha gioco facile. Per questo non si contano più le persone suicidate dalla crisi. Il nano-prestito si propone quindi come strumento di credito alternativo a quelli tradizionali.
 
Cos’è e come funziona
Il nano-prestito eroga cifre inferiori a quelle solitamente ottenute. Parliamo infatti di somme al di sotto dei 2.500 euro. Così, anche il TAEG (ovvero il costo del finanziamento) è abbastanza contenuto. Il tasso variabile oscilla tra il 10% e il 20%, equivalente al 120-140% annuale, che per gli istituti di credito non è particolarmente redditizio. 
Il finanziamento va rimborsato in 30 mesi, pagando al massimo 100 euro per volta.
 
 
 
 
Destinatari
Il progetto pilota è partito con 50 famiglie di Nola (provincia di Napoli) per un importo complessivo di 10.000 euro. Entro giugno i beneficiari dovrebbero arrivare a quota 150. La zona coinvolta non è stata scelta a caso. Infatti il capoluogo di regione campano e Caserta sono le due province più esposte al fenomeno dell’usura. A dirlo, Contribuenti.it. 
 

 

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