Nel nuovo millennio le società che nascono con l'intento di presidiare il mercato finanziario si chiamano Fintech. Finanza e Tecnologia, ecco il connubio perfetto che farà la differenza.
Ma cosa offrono di più queste pseudo-banche rispetto alle banche tradizionali?
La start-up finanziaria in Europa
Partiamo dal presupposto che la logica operativa è la stessa della Banca tradizionale, ma con più tecnologia. Molta più tecnologia che ne riduce i costi fissi (per lo più il personale) e ne aumenta la scalabilità a livello universale. Anche perché non avendo filiali fisiche possono permettersi di entrare in tutti i mercati del mondo con semplici traduzioni di lingua.
Quali sono state nel 2017 le principali start-up del Fintech?
La classifica per fatturato vede ai primi 3 posti
REVOLUT (UK) con 2.7 milioni di € con 855mila clienti
ATOM (UK) con 1.2 milioni di € con 17mila clienti
N26 (Germania) con 1 milione di € con 500mila clienti
Le altre non hanno raggiunto neanche il milione di fatturato
Numeri ridicoli se consideriamo che queste Fintech operano nel settore bancario, ma soprattutto se osserviamo quanto hanno ricevuto in termini di finanziamento da Venture Capital, Banche d'investimento e Business Angels.
Quanto è stato l'ammontare dei finanziamenti?
La cosa pazzesca di questo mondo è che non esiste al momento nessuna correlazione logica all'ammontare dei finanziamenti rispetto al fatturato e al numero di clienti attivi. Ma ciò nonostante, sembra che i VC non siano avari nell'elargire immensi fondi per far crescere queste start-up.
Ecco l'importo dei "round" alle Fintech nel 2017
Solo sullo scenario Europeo troviamo
MONZO con 92 milioni di € (ma ne fattura appena 1 di milione)
ATOM con 100 milioni di €
REVOLUT 66 milioni di €
MONESE 10 milioni di €
In totale per il 2017 sulle prime 8 Fintech sono stati investiti ben 390 milioni di €! Senza considerare i "round" degli anni precedenti che sono il triplo.
Ma perché allora c'è questa corsa al Fintech? Cosa promette di buono al Venture Capitalism?
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Le Fintech Italiane
Nota dolente, ma tra i big round Europei di italiane non cè ne nessuna!
Sono tutte in UK, a prescindere dalla Brexit, tranne una, N26, che ha sede a Berlino.
Eppure è strano! Ma non ci avevano detto che gli Italiani sono un popolo di risparmiatori? E allora devo pensare che ancora li mettiamo sotto al materasso sti spiccioli?
Un comodo stivaletto, delle décolleté per una serata elegante. Calzature che usiamo per una stagione e che spesso finiscono nel cassonetto appena sei mesi dopo.
Potrebbero essere riparate? Sì. Ma a volte il prezzo di un paio di scarpe nuove è così basso che non vale nemmeno la pena farle passare dalle mani di un calzolaio.
Se a noi questa situazione regala un illusorio risparmio c’è sempre qualcuno che ne fa le spese. E, chissà perché, spesso sono le parti più povere del mondo.
Una filiera poco trasparente
La produzione di scarpe parte sempre dalla progettazione del modello, a cui fa seguito la manifattura della tomaia (parte superiore della scarpa)e infine il montaggio dell’intero prodotto.
L’azienda a quel punto può scegliere se confezionare la calzatura tramite una produzione esclusivamente interna o spostare la manifattura anche all’esterno. Scelta, quest'ultima, operata dalla maggioranza dei grandi marchi.
L’azienda portavoce delle molte esterne che vengono utilizzate si chiama capofiliera, tutte le altre sono i subfornitori. Benché i grossi brand stipulino contratti di fornitura con poche imprese, in realtà il numero di aziende che entra nella catena è molto più ampio, per abitudine dei terzisti a cedere sempre il lavoro a società di livello inferiore.
Risultato? "Più si scende giù per la filiera, più i prezzi si riducono perché ogni livello tenta di guadagnare su quello successivo, trattenendo parte del prezzo pattuito col proprio committente". ( Report Change your shoes) Come far fronte a questo circolo vizioso?
Cambia le tue scarpe
Si chiama Change your shoes la nuova campagna di Abiti puliti, rete di più di 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale.
Il report del progetto descrive il viaggio compiuto nelle filiere produttive di tre marchi globali di calzature ( Tod’s, Geox e Prada), mostrando quanto questa industria sia ancora lontana dal riconoscimento dei diritti lavorativi e, in alcuni casi, persino umani.
Fenomeno reshoring
Il reshoring indica il trasferimento in direzione contraria delle attività produttive precedentementedelocalizzate in Estremo Oriente. Ad essere interessati in particolare i Paesi dell’Europa dell’Est, con salari ancora più bassi di quelli asiatici.
Perché negli ultimi anni sta prendendo piede questo fenomeno? L’aumento di produttività, legato alla maggiore flessibilità del lavoro e libertà di licenziamento rende di nuovo appetibile la vecchia Europa che presenta una tradizione artigianale e manifatturiera di lunga data. La semplice etichetta made in EU infatti è già di per sé garanzia di qualità e di alti standard.
Il prezzo di tale gestione ? Condizioni sanitarie inesistenti, offese verbali ai lavoratori, norme di sicurezza insoddisfacenti, forme di assunzione irregolari.
La poca informazione e l’impossibilità di tracciamento di numerose filiere produttive favoriscono ogni tipo di violazione lontano dagli sguardi dei consumatori. E spesso l’ostacolo alla denuncia è proprio la paura, il terrore dei dipendenti di perdere quel posto di lavoro che , anche se misero, garantisce la sopravvivenza.
Un percorso complicato che è anche diventato un documentario, In my shoes, di Sara Farolfi e Mario Poeta, che raccoglie alcune di queste voci.
Scarpe di cristallo
A fronte di tutta questa situazione, cosa chiede Abiti puliti? Scarpe “più trasparenti”. Tod’s, Prada e Geox devono garantire maggiore chiarezza nella loro catena di fornitura e il rispetto dei diritti del lavoro, in primis il pagamento di salari dignitosi.
Nello stesso tempo intima ai governi nazionali e alle istituzioni europee di applicare maggior controllo, obbligando le aziende a rendere le catene di fornitura più limpide, riducendo l’impatto negativo sul capitale umano.
Coa possiamo fare noi? Cedere meno al consumismo e concedere alle scarpe una seconda vita. Solo così si potrà fare tanta strada.
A ciascuna stagione i suoi piccoli, impagabili, piaceri.
L’arrivo della primavera è scandito dal glicine fiorito, con la sua esplosione di colore e profumo, mentre l’estate è salsedine e sandali bassi. L’autunno regala fragranti castagne arrosto e croccanti foglie secche, e l’inverno è un’ottima scusa per farsi riscaldare da una tazza di the o cioccolata calda e da una sostanziosa fetta di torta.
Quanti di noi hanno mai riflettuto sul fatto che crogiolarsi nel tepore mentre fuori impazza il freddo non è, purtroppo, un godimento alla portata di tutti? Improbabile aver pensato, presi come siamo dal tran tran quotidiano, al fatto che, per chi non ha una casa, l’inverno rappresenta una maledizione, o comunque una scommessa di sopravvivenza.
Nelle scorse settimane la sezione bolognese dei Guardian Angels * (Angeli Custodi) ha avviato l’iniziativa Dona una Sciarpa, mutuandola dall’omonima associazione statunitense. Quanti di noi hanno gli armadi ricolmi di esemplari di questo accessorio regalati ma non graditi – e quindi mai indossati – o frutto di un acquisto compulsivo di cui subito dopo ci siamo pentiti?
L’iniziativa, scaturita da tale constatazione e prima nel suo genere su territorio nazionale, ha rapidamente preso piede all’interno del capoluogo emiliano.
Dall’inizio di novembre alberi e pali situati nei quartieri San Donato e San Vitale si sono ricoperti di sciarpe messe a disposizione dei senzatetto da parte di molti cittadini.
Un modo, questo, immediato e concreto, per esprimere la propria solidarietà a chi, quotidianamente, deve ingegnarsi per combattere il freddo con mezzi di fortuna.
“Non mi hanno persa. Puoi prendermi e portarmi con te, se ne hai bisogno. Ti aiuterò a scaldarti”. Questo il messaggio che accompagna le sciarpe volontariamente disseminate nel capoluogo emiliano. A coordinare l’iniziativa è il gruppo Facebook della sezione locale di Guardian Angels.
La risposta dei bolognesi all’iniziativa Dona una Sciarpa è stata pronta e rapidissima. In molti, ad esempio, hanno contattato l’associazione per chiedere quali zone della città presentassero il maggior numero di senzatetto e bisognosi.
Non stupisce quindi che oggi praticamente ovunque, all’interno del capoluogo, si possano vedere esemplari dell’accessorio appesi e liberamente disponibili. La massiva adesione ha coinvolto anche altre organizzazioni, tra cui Re-use with love e Agimap.
“Raggiungiamo quotidianamente le zone di Bologna più a rischio, le riforniamo di sciarpe e quando torniamo dopo qualche ora, ne mancano sempre almeno un paio. Ovviamente le rimpiazziamo e continuiamo il giro”. Così Giuseppe Balduini che coordina la sezione locale dei Guardian Angels.
Nel frattempo Dona una Sciarpa si è estesa a macchia d’olio in altre dieci città italiane, tra cui Padova, Torino, Milano e Cagliari, e dell’iniziativa si sono occupati anche i media austriaci, tedeschi e polacchi.
Sospendere per condividere.
Dal caffè alle visite mediche passando per i giocattoli. L’umanità sta dimostrando di possedere robusti anticorpi per combattere la dilagante (e dilaniante) crisi economica. La solidarietà resta, soprattutto nelle grandi città, in cui frenesia e disattenzione rischiano di avere il sopravvento, il più efficace antidoto contro la morte silenziosa, la malattia del terzo millennio che spesso colpisce anche gli (apparentemente) insospettabili.
* I Guardian Angels sono stati fondati nel 1979 da Curtis Sliwa, con l’intento di contrastare il dilagare di criminalità e povertà a New York. Negli anni gli angeli custodi si sono contraddistinti per il fatto di essere volontari impegnati in prima linea per tamponare e arginare le emergenze di strada. I destinatari delle loro attività sono principalmente persone vittime di dipendenze, violenza o difficoltà economiche.