Apertura. È questa la parola chiave della sharing economy, declinata nelle sue forme più diverse. Nell’economia tradizionale le aziende erano una specie di fortino, un’entità chiusa, in tutti i sensi, e sospettosa verso ciò che proveniva dall’esterno e che era percepito come estraneo, oggi sempre più il motto sembra essere contaminazione. Si fa ormai strada la consapevolezza che dall’incontro di realtà imprenditoriali e professionali molto differenti possa scaturire un arricchimento per tutte le parti in gioco. Ciò spiega il boom del fenomeno del coworking, diventato una realtà anche in Italia, dove i luoghi in condivisione per lavorare sono giunti a quota 300. A “dare i numeri” il Talent Garden, la prima comunità fisica a livello europeo che raccoglie talenti digitali.
Secondo uno studio di Forbes il 40% della forza lavoro, nei Paesi occidentali, diventerà freelance, e questo sta comportando un cambiamento profondo della concezione stessa del lavoro. Ciò significa che il coworking non sarà più, semplicemente, una nicchia, ma un modo di operare diffuso, che innerverà poco a poco vari settori professionali.
La gran parte dei luoghi in cui si fa coworking è al Nord (65% del totale): la Lombardia fa la parte del leone (90, di cui 60 solo a Milano), seguono Veneto ed Emilia Romagna (30). Roma, invece, va decisamente più a rilento (circa 20). Qual è l’identikit di chi usufruisce di questi luoghi? Si tratta principalmente di lavoratori indipendenti, ovvero freelance e piccoli imprenditori, ma anche le grandi aziende stanno iniziando a familiarizzare con queste realtà. In genere, si può affittare una postazione a 25 euro al giorno e 250-300 al mese.
Interessante l’analisi delle motivazioni che spingono a scegliere questa soluzione: più dei costi, ad attrarre è la possibilità di confrontarsi con realtà diverse, mettere in comune conoscenze, risorse ed esperienze e gestire il lavoro in base ai propri bisogni.
Inoltre, l’organizzazione dei luoghi segue strategie ben precise: c’è chi punta sulla creazione di “isole” costituite da comunità specifiche e settoriali, come autori o designer, e chi invece sperimenta il “melting pot” professionale, scommettendo sull’incontro tra startup, piccole aziende e freelance. Fa riflettere il fatto che, come spiegano da Talent Garden, molto spesso le imprese scelgono dei dipendenti da distaccare in queste realtà, così da porli a confronto con ambiti anche diversi e stimolare la produttività.
L’esperienza dei coworking dimostra che mettere a contatto esperienze e background professionali variegati costituisce un guadagno per tutti, in quanto dal dialogo e dall’incontro possono nascere nuovi progetti, magari anche da sviluppare in comune. Inevitabilmente, infatti, lavorare fianco a fianco con chi opera in un settore molto diverso dal proprio sollecita aspetti della creatività magari poco utilizzati, ma fertili, favorendo la nascita di qualcosa del tutto nuovo. Insomma, indiscutibilmente idee e iniziative sono come i virus … altamente contagiose!
Apertura. È questa la parola chiave della sharing economy, declinata nelle sue forme più diverse
Nell’economia tradizionale le aziende erano una specie di fortino, un’entità chiusa, in tutti i sensi, e sospettosa verso ciò che proveniva dall’esterno e che era percepito come estraneo, oggi sempre più il motto sembra essere contaminazione. Si fa ormai strada la consapevolezza che dall’incontro di realtà imprenditoriali e professionali molto differenti possa scaturire un arricchimento per tutte le parti in gioco. Ciò spiega il boom del fenomeno del coworking, diventato una realtà anche in Italia, dove i luoghi in condivisione per lavorare sono giunti a quota 300. A “dare i numeri” il Talent Garden, la prima comunità fisica a livello europeo che raccoglie talenti digitali.
Secondo uno studio di Forbes il 40% della forza lavoro, nei Paesi occidentali, diventerà freelance, e questo sta comportando un cambiamento profondo della concezione stessa del lavoro. Ciò significa che il coworking non sarà più, semplicemente, una nicchia, ma un modo di operare diffuso, che innerverà poco a poco vari settori professionali.
La gran parte dei luoghi in cui si fa coworking è al Nord (65% del totale): la Lombardia fa la parte del leone (90, di cui 60 solo a Milano), seguono Veneto ed Emilia Romagna (30). Roma, invece, va decisamente più a rilento (circa 20). Qual è l’identikit di chi usufruisce di questi luoghi? Si tratta principalmente di lavoratori indipendenti, ovvero freelance e piccoli imprenditori, ma anche le grandi aziende stanno iniziando a familiarizzare con queste realtà. In genere, si può affittare una postazione a 25 euro al giorno e 250-300 al mese.
Interessante l’analisi delle motivazioni che spingono a scegliere questa soluzione: più dei costi, ad attrarre è la possibilità di confrontarsi con realtà diverse, mettere in comune conoscenze, risorse ed esperienze e gestire il lavoro in base ai propri bisogni.
Inoltre, l’organizzazione dei luoghi segue strategie ben precise: c’è chi punta sulla creazione di “isole” costituite da comunità specifiche e settoriali, come autori o designer, e chi invece sperimenta il “melting pot” professionale, scommettendo sull’incontro tra startup, piccole aziende e freelance. Fa riflettere il fatto che, come spiegano da Talent Garden, molto spesso le imprese scelgono dei dipendenti da distaccare in queste realtà, così da porli a confronto con ambiti anche diversi e stimolare la produttività.
L’esperienza dei coworking dimostra che mettere a contatto esperienze e background professionali variegati costituisce un guadagno per tutti, in quanto dal dialogo e dall’incontro possono nascere nuovi progetti, magari anche da sviluppare in comune. Inevitabilmente, infatti, lavorare fianco a fianco con chi opera in un settore molto diverso dal proprio sollecita aspetti della creatività magari poco utilizzati, ma fertili, favorendo la nascita di qualcosa del tutto nuovo. Insomma, indiscutibilmente idee e iniziative sono come i virus … altamente contagiose!
Virtuale e(‘) ludico. Le reti 2.0 ci hanno abituato a questa equazione. Facebook, Snapchat, Whatsapp dispiegano appieno le loro capacità di fare intrattenimento ma, in un certo senso, non rendono giustizia a tutta un’altra gamma di potenzialità, connesse allo scambio e alla condivisione di informazioni, risorse e competenze tra persone che abitano nella stessa strada o in strade comunque vicine. Le social street, comunità virtuali/reali in crescente espansione anche in Italia, stanno riuscendo nell’intento di valorizzare anche tale aspetto, che potremmo definire di pubblica utilità.
Tutto è iniziato a Bologna, nel settembre 2013. «Era già un po’ di tempo che vivevo in via Fondazza, ma ancora non conoscevo nessuno. Così mi sono chiesto se nel vicinato ci fossero altre famiglie, con i cui figli far giocare i miei bambini. Allora ho stampato e affisso in giro un foglio A4 e creato un gruppo Facebook chiuso. In poco tempo siamo arrivati a 200 persone». Così il fondatore della prima social street italiana racconta com’è nata l’idea.
Come si svolge, in concreto, la “vita” di una social street? Chi ha bisogno di aiuto (ad esempio, fare un trasloco, imparare a usare il PC), posta un annuncio nel gruppo Facebook, manifestando la sua esigenza, e spiegando in che modo (ri) compenserà chi accoglierà la sua richiesta. Ci si può, inoltre, ritrovare per pulire le strade, organizzare un cineforum, o semplicemente per fare colazione insieme. Il tutto, nell’ottica di garantire un risparmio economico alla collettività, favorire la diffusione di un’economia immateriale e rafforzare le reti sociali all’interno del quartiere. Quest’ultimo aspetto è infatti diventato, negli ultimi anni, particolarmente delicato, in quanto stringere amicizie, o anche solo rapporti di buon vicinato, sembra diventato sempre più difficile, soprattutto nelle grandi metropoli, dove le persone sono continuamente di corsa. Pare quasi che tutti corrano per raggiungere un ipotetico traguardo, talvolta anche difficile da stabilire e individuare.
«Devo dire che la cosa più bella è che grazie a questo gruppo adesso sono nate vere e proprie amicizie». A parlare è Fabio Calarco, ingegnere delle telecomunicazioni e proprietario di un’agenzia di comunicazione digitale che vive da otto anni a Corso San Gottardo (Milano) e che qui ha fondato una social street. Oggi ne sono parte attiva 5.000 persone. «Ho conosciuto Martina, che poi sarebbe diventata la mia testimone di nozze, in questo contesto. È una persona eccezionale, , pensa che dopo nemmeno due mesi che la conoscevo quando ho avuto bisogno di un’auto non ha esitato a prestarmela! Milano non è poi così ‘fredda’ come alcuni pensano!».
Iniziative come questa sembrano aver riportato a galla il senso primo e più autentico di comunità. Ci si aiuta, si collabora, si offre un sostegno a chi è solo o in difficoltà senza doversi, necessariamente, aspettare qualcosa in cambio. Così, può capitare che un’abitante del quartiere segnali la presenza in zona di una nonnina che va in giro smarrita e indifesa nei confronti del tempo che passa, e i vicini si prodighino per farle compagnia, concedersi una chiacchierata e una passeggiata con lei (ri) scoprendo una Milano del passato, poco nota o per niente conosciuta. Un abbraccio, ideale e reale, che unisce giovani e meno giovani.
Virtuale e(‘) ludico
Le reti 2.0 ci hanno abituato a questa equazione. Facebook, Snapchat, Whatsapp dispiegano appieno le loro capacità di fare intrattenimento ma, in un certo senso, non rendono giustizia a tutta un’altra gamma di potenzialità, connesse allo scambio e alla condivisione di informazioni, risorse e competenze tra persone che abitano nella stessa strada o in strade comunque vicine. Le social street, comunità virtuali/reali in crescente espansione anche in Italia, stanno riuscendo nell’intento di valorizzare anche tale aspetto, che potremmo definire di pubblica utilità.
Tutto è iniziato a Bologna, nel settembre 2013. «Era già un po’ di tempo che vivevo in via Fondazza, ma ancora non conoscevo nessuno. Così mi sono chiesto se nel vicinato ci fossero altre famiglie, con i cui figli far giocare i miei bambini. Allora ho stampato e affisso in giro un foglio A4 e creato un gruppo Facebook chiuso. In poco tempo siamo arrivati a 200 persone». Così il fondatore della prima social street italiana racconta com’è nata l’idea.
Come si svolge, in concreto, la “vita” di una social street? Chi ha bisogno di aiuto (ad esempio, fare un trasloco, imparare a usare il PC), posta un annuncio nel gruppo Facebook, manifestando la sua esigenza, e spiegando in che modo (ri) compenserà chi accoglierà la sua richiesta. Ci si può, inoltre, ritrovare per pulire le strade, organizzare un cineforum, o semplicemente per fare colazione insieme. Il tutto, nell’ottica di garantire un risparmio economico alla collettività, favorire la diffusione di un’economia immateriale e rafforzare le reti sociali all’interno del quartiere. Quest’ultimo aspetto è infatti diventato, negli ultimi anni, particolarmente delicato, in quanto stringere amicizie, o anche solo rapporti di buon vicinato, sembra diventato sempre più difficile, soprattutto nelle grandi metropoli, dove le persone sono continuamente di corsa. Pare quasi che tutti corrano per raggiungere un ipotetico traguardo, talvolta anche difficile da stabilire e individuare.
«Devo dire che la cosa più bella è che grazie a questo gruppo adesso sono nate vere e proprie amicizie». A parlare è Fabio Calarco, ingegnere delle telecomunicazioni e proprietario di un’agenzia di comunicazione digitale che vive da otto anni a Corso San Gottardo (Milano) e che qui ha fondato una social street. Oggi ne sono parte attiva 5.000 persone. «Ho conosciuto Martina, che poi sarebbe diventata la mia testimone di nozze, in questo contesto. È una persona eccezionale, , pensa che dopo nemmeno due mesi che la conoscevo quando ho avuto bisogno di un’auto non ha esitato a prestarmela! Milano non è poi così ‘fredda’ come alcuni pensano!».
Iniziative come questa sembrano aver riportato a galla il senso primo e più autentico di comunità. Ci si aiuta, si collabora, si offre un sostegno a chi è solo o in difficoltà senza doversi, necessariamente, aspettare qualcosa in cambio. Così, può capitare che un’abitante del quartiere segnali la presenza in zona di una nonnina che va in giro smarrita e indifesa nei confronti del tempo che passa, e i vicini si prodighino per farle compagnia, concedersi una chiacchierata e una passeggiata con lei (ri) scoprendo una Milano del passato, poco nota o per niente conosciuta. Un abbraccio, ideale e reale, che unisce giovani e meno giovani.
A partire da maggio 2017, aziende e professionisti avranno l’obbligo di comunicare le fatture rilasciate, come pure quelle ricevute e registrate. Contestualmente, dovranno essere prodotti i dati contabili riepilogativi delle liquidazioni periodiche dell’IVA. A stabilirlo, il decreto fiscale approvato nei giorni scorsi dal Governo. Il tutto va in direzione opposta rispetto alla tanta celebrata e auspicata esemplificazione.
La comunicazione relativa alle fatture andrà fatta trimestralmente; per ciascuna operazione dovranno essere comunicati i dati utili a identificare i soggetti coinvolti nelle operazioni, data, numero di fattura, base imponibile, aliquota applicata, imposta e tipologia dell’operazione. A precisare in che modo avverrà l’invio sarà l’Agenzia delle Entrate, con un atto ad hoc.
Questo obbligo di comunicazione avrà una doppia implicazione: aumenterà infatti il carico di lavoro per il commercialista, e saliranno i costi per il titolare di partita IVA. Inoltre, in caso di mancata osservanza delle nuove norme, a farne le spese sarà il cliente-contribuente, che potrebbe vedersi attribuire una sanzione compresa tra 25 e 25. 000 euro.