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Ultraboost, le prime scarpe fatte con i rifiuti dell'oceano

Raccogliere plastica e rifiuti che infestano mari e oceani è un problema che riguarda tutti.

Ma un volta recuperati? Cosa ce ne facciamo di quell’enorme quantità di spazzatura? Adidas e Parley for the Oceans, associazione ambientalista, hanno individuato una soluzione creativa e intelligente al quesito. L'organizzazione che mira a ridurre l’inquinamento negli oceani (dopo aver sviluppato con una stampante 3D un prototipo di scarpa da ginnastica eco-sostenibile), ha finalmente realizzato la prima scarpa da corsa, riciclando reti e rifiuti ripescati nell'oceano, sporcizia dovuta il più delle volte a pesca illegale e con strumenti non autorizzati.

Si chiamano Ultra Boost uncanged parlet: 95% di plastica riciclata eil resto ottenuto dal riutilizzo di altri materiali. Le scarpe sono in edizione limitata: solo 7000 paia disponibili in tutto il mondo. L’azienda tedesca, dopo il primo test, non ha affatto intenzione di fermarsi; l’obiettivo  infatti è produrne almeno un milione. «Ciò a cui miriamo è l’eliminazione della plastica vergine dal nostro processo di produzione e distribuzione» ha affermato Cyrill Gutsch, fondatore di Parley for the oceans. Le scarpe, in vendita in Italia a partire da metà novembre, sia online che negli store, costeranno 200 euro.  Un prodotto importante per sensibilizzare l’opinione pubblica al problema dell’inquinamento dei mari. 

«Nessuno salva gli oceani da solo. Ognuno di noi può avere un ruolo nella risoluzione del problema» afferma ancora 

Gutsch. «Secondo un recente studio, nel 2050 ci sarà più plastica negli oceani che pesci: dunque, non c’è tempo da perdere. È compito delle industrie creative reinventare i materiali, i prodotti, i modelli di business. Il consumatore può aumentare la domanda in linea con il cambiamento.»

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di Irene Caltabiano

 
 

 

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Uncut girls: un gruppo di ragazze può fare la differenza sulla mutilazione genitale?

Non è uno sleepover club o un gruppo di cucito, ma un movimento che potrebbe rappresentare la svolta per le donne etiopi. 

Cinquanta ragazze supportate dall’ong plan international, ha detto no alla mutilazione genitale femminile. Lenteta, Weyinitu, Dorite, Dirshaye e Birtukan: un fronte unito che, grazie alla forza dell’obiettivo comune, sta avendo largo seguito tra le coetanee. E non solo: anche le famiglie, molto legate alla tradizione, stanno piano piano abbassando le difese e sostenendo le figlie.

Un progetto che ha radici lontane . L’ong Plan international è infatti attiva dal 1937 in Asia, Africa e America latina. In Etiopia è impegnata principalmente con Un’alleanza per dare voce alle bambine, iniziativa per ridurre il fenomeno delle spose minorenni e la crudeltà delle mutilazioni genitali femminili. Con lo slogan “La mia sessualità è un diritto!”, le giovani adolescenti vogliono scardinare un taboo da troppo tempo presente nella società africana.

Perché avvengono le mutilazioni genitali

Nessuno conosce  la genesi esatta, ma si pensa sia un rito pre-islamico importato nell’impero romano per controllare la sessualità delle schiave. Da qui la credenza si è evoluta insieme a tanti altri fattori culturali. Si crede infatti che l’infibulazione permetta alle donne di arrivare vergini al matrimonio, requisito fondamentale per sposarsi. Inoltre, triste ma vero, una sposa illibata viene “pagata” di più, ovvero garantisce una dote migliore per la famiglia.

Peraltro, dal momento che il rapporto non è finalizzato all’orgasmo femminile ma alla procreazione, l’infibulazione viene praticata per aumentare esclusivamente il piacere maschile. E numerosi altri motivi come la preservazione della purezza, la pulizia e la mutilazione come sinonimo di buona salute. In realtà, da parere medico, è esattamente il contrario. Non solo esiste il rischio di infezioni ma milioni di altre complicazioni e malattie, non ultima la possibilità di morte della madre o del bambino in caso di parto.

(* dati ripresi da Mutilazioni dei genitali femminili. Si crede che… Invece… Perché questa pratica deve finire, pubblicazione dell'AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, 2000.)

Informare per resistere

Immaginate dunque quali catene devono essere spezzate, dal momento che molte coetanee, per paura di diventare reiette, accettano volontariamente questa pratica. Dorite spiega: «Hanno scelto di sottoporsi alla procedura perché temevano che altrimenti sarebbero state vittime di bullismo e nessuno avrebbe voluto sposarle». Lei invece, come gli altri membri del gruppo, hanno detto no alla mutilazione e continua a reclutare nuove adepte. Un messaggio di emancipazione che rende le donne più istruite e sicure di sé, nonché ferventi sostenitrici dei propri diritti.

« Se il mio futuro marito vorrà una sposa mutilata, proverò a spiegargli le conseguenze di questa pratica e mi potrà sposare solo se comprenderà la mia decisione» rivela la dodicenne Weyinitu. Un club che insegna ad essere per prima cosa considerate persone, poi donne e infine spose. Un' iniziativa che assume ancora più valore dal momento che avviene nel luogo per eccellenza dell’istruzione: la scuola.

Ecco come le nuove generazioni vogliono diventare padrone del proprio destino. Partire dal piccolo per arrivare alle grandi rivoluzioni. 

 

di Irene Caltabiano

 

 

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Wikkelhouse, la casa di cartone resistente e itinerante

Dopo la casa costruita interamente con bottiglie di plastica, ecco la dimora di cartone.

Si chiama Wikkelhouse e, nonostante le apparenze fragili, resiste a pioggia, vento e intemperie. La Fiction Factory, casa olandese che le ha dato forma, l'ha resa durevole fino a 100 anni e completamente eco-sostenibile. Un'abitazione a tutti gli effetti, con cucina e bagno e area notte, in cui vuivere normalmente e senza rischi.

24 strati di cartone

Una casa itinerante, che non ha bisogno di fondamenta e quindi collocabile ovunque, dal prato alla spiaggia. Ogni parete è composta da 24 strati di cartone; il rivestimento viene fissato con una supercolla ecologica e un telaio conferisce alla struttura l'aspetto definitivo. Una casa componibile, in cui ogni stanza è un blocco a sé, ognuno poco superiore al metro, per avere tutti i comfort e per consentire il montaggio in tempi brevi e secondo il gusto dei proprietari.

Richiesta in continua crescita

La WikkelHouse è già disponibile in Belgio, Germania, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo e Danimarca. Per gli altri Paesi, in particolare quelli mediterranei, bisognerà attendere il 2017. La versione base, composta da tre moduli, costa circa 25mila euro, ma ad ogni aggiunta cresce il prezzo finale.

La dimostrazione della qualità sta nel fatto che ogni anno vengono costruite solo dodici case. Una lista d'attesa che cresce grazie al passaparola, a cui l'azienda dovrà presto far fronte.

 

di Irene Caltabiano

 

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