A colpi di tweet e kalashnikov: l'Isis e la comunicazione del terrore
16.11.2015 21:30
«Twitto quanti ne ho uccisi e ricomincio».
Immagino il terrorista che posa il fucile, digita #Parigiinfiamme e riparte con il massacro. Chiedo venia, ma l'ironia mi è sempre sembrata l'unica via per affrontare i mali del mondo, anche se qualcuno afferma che sia impossibile scherzare di fronte a certi eventi. Ma in fondo, come dicevano gli antichi greci (che sull'umanità la sapevano lunga), la comicità è un'altra faccia della tragedia.
I fatti del 13 novembre non credo verranno dimenticati facilmente. La freddezza e la coordinazione di esecuzione dell'ISIS durante gli attentati di Parigi ha dello straordinario nella sua malvagità. Ma, fra tutte le domande che mi sono posta, mi sono interrogata su come sia possibile l'utilizzo smodato dei social per diffondere i propri macabri contenuti. Grazie al grande potere della rete, è realistico risalire all'identità dei fondamentalisti? Dove abitano? Quali tecniche utilizzano per diffondere i loro messaggi sul web?
Ma soprattutto: come mai i loro sadici profili “cinguettano” ancora?
Ho dunque iniziato la mia ricerca online per capire, in mezzo al dolore e allo sgomento, se qualcuno si era mai posto i miei stessi interrogativi. Ho scoperto che due ricercatori della Brooking Institutions, J. M. Berger e Johnatan Morgan, hanno pubblicato lo studio The Isis Twitter Census. I due autori con quest'opera cercano di dare una spiegazione ai quesiti sopra citati.
Le cifre? Oltre 133 tweet da parte di 46mila profili, di cui oltre 1.500 condividono più di 50 contenuti pro-jihad. Questa la potenza del fondamentalismo sul popolare social network. Il sostenitore tipo? Sette tweet al giorno, in tre quarti dei casi in arabo ( e in uno su cinque in inglese) che raggiungono in media 1004 followers.
Il proliferare di argomenti violenti è però garantito da uno zoccolo duro di circa 2000 utenti. Sono i cosiddetti mujtahidun: le loro eruzioni rapide e continue di tweet rende virale il materiale condiviso. Spesso le frasi, i video, le immagini vengono presi e ripostati da utenti con meno follower. Chiaramente ognuno è dotato di account diversi, così da far fronte alle sospensioni imposte dai gestori della piattaforma.
Dunque non sarebbe possibile, con accurati studi, capire come trovare i potenziali terroristi? Non è così semplice. La geo-localizzazione viene infatti attivata o disattivata a piacimento dell'iscritto. Twitter sta combattendo da mesi un conflitto cibernetico con i miliziani del Califfato, per contrastare l'enorme diffusione degli individui pro-ISIS. Ma i supporter dell'organizzazione aprono account multipli o ripristinano quelli chiusi con altri nomi. Il dato preoccupante è che l'utenza dei sostenitori è triplicata nell'ultimo anno.
La sospensione dei profili sta avendo effetti concreti nel limitare le possibilità e la portata delle attività dell' ISIS sui social media. Adesso il 10% del traffico jahdista è dedicato a ricostruire i network spezzati anziché alla propaganda.
Purtroppo non ci si può certo aspettare che i contatti vengano del tutto eliminati. Lo scopo dell'operazione non è infatti l'interdizione totale, ma diminuire la diffusione delle ideologie terroriste.
L’ISIS vive di comunicazione. Ciò che impressiona non è solo la capacità di usare i media ma l'avere una strategia articolata fatta di prodotti diversi per differenti destinatari. Non solo tweet, ma anche video, brochure per le famiglie dei foreign fighters, addirittura giochi per playstation per avvicinare all'ideologia noi occidentalii.
Una follia figlia del nostro tempo, una guerra parallela scissa tra realtà e mondo virtuale. Credo che non sia il momento di esprimere opinioni frettolose. Ma riconoscere il valore del silenzio per cercare di capire cosa realmente sta accadendo da venticinque anni a questa parte.
Dichiarazione di poche ore fa di Anonymous, una delle più famose organizzazioni di hackeraggio, contro l'Isis:
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