Autismo: l’amore e la libertà spezzano la tirannia della malattia
Lo confesso: sono un'ipocondriaca pentita
Pur non essendo mai stata– fortunatamente – tra quanti svengono semplicemente alla vista di un ago, ammetto che, per un breve periodo della mia vita, ho frequentato regolarmente guardie mediche e pronto soccorso della zona in cui abitavo.
A distanza di tempo
e dopo aver capito che per condurre una vita degna di essere chiamata tale dovevo necessariamente confrontarmi con questa scomoda parte di me, e imparare a conviverci/gestirla, ho realizzato che, forse quello che mi terrorizzava davvero non era (sol)tanto l’idea di poter sviluppare, un giorno, una qualche patologia incurabile e mortale.
Io sono la mia malattia (?)
Probabilmente, a tenermi in scacco era il pensiero, ruminato in modo sotterraneo e quindi subdolo, che, se fossi stata vittima di un tumore o dell’AIDS, io sarei diventata la malattia. La totalità del mio essere sarebbe stata risucchiata da questo buco nero. Le passioni, il lavoro e le relazioni sarebbe state spazzate via.
Non ci sarebbe più stato spazio per nulla che avesse a che fare con la vita: le mie giornate sarebbero state scandite da analisi, pellegrinaggi in ospedale e il tempo trascorso a casa, vuoto e interminabile.
"Colpa" dei miei genitori?
Il timore inconscio che l’insorgere della malattia potesse un giorno rendere irriconoscibile Francesca (fisicamente e non solo) derivava dai racconti dei miei genitori.
Entrambi negli anni Ottanta hanno lavorato come infermieri nei famigerati ospedali psichiatrici (Opis), e così sono spesso stati testimoni inconsapevoli di situazioni in cui la dignità di essere umano dei pazienti veniva pressoché azzerata.
Il luogo che avrebbe dovuto dar loro riparo, conforto e sollievo diventava lager e carcere; il reato da scontare, non voluto né praticato, il disagio mentale.
Ancora oggi mi capita di ripensare alla compagna di scuola che mia madre ritrovò in Opis
La bellezza, l’intelligenza e la vivacità dell’adolescenza stuprate dalla camicia di forza, il pudore di un tempo insozzato dagli escrementi da cui non poteva ripulirsi.
Così, mi hanno colpita alcuni articoli letti recentemente
Storie di ragazzi autistici, giovani uomini di età compresa tra 18 e 20 anni che stanno costruendo una vita piena e intensa, trovando nella quotidianità fatta di azioni, impegni lavorativi ed hobby il proprio senso e identità.
Tutto questo grazie all’amore caparbio di genitori che hanno deciso, sin da subito, che la malattia non si sarebbe trasformata in una cella buia e soffocante.
Cura e dedizione non sono sfociate in timori e apprensione, ma sono state convogliate nel raggiungimento di uno scopo ben preciso: dare al proprio figlio gli strumenti per raggiungere l’autonomia.
L’autismo
è un disturbo caratterizzato da notevole eterogeneità e sulle cui cause ancora non ci sono informazioni chiare e univoche.
Il termine che si usa per descrivere di volta in volta le sue manifestazioni pratiche, in termini quantitativi e qualitativi, è spettro.
Il minimo comun denominatore condiviso da chi ne è affetto è rappresentato da tre sintomi: ridotte abilità sociali e comunicative e comportamenti stereotipati. A questi tratti possono associarsi varie forme di disabilità intellettiva o instabilità motoria e attentiva.
Uno dei punti più critici con cui devono confrontarsi i genitori di persone autistiche è rappresentato dal fatto che il sostegno da parte di istituzioni e strutture viene meno in corrispondenza del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Il più delle volte le famiglie devono farsi interamente carico della situazione, pur non avendo strumenti e competenze necessarie, ma trascorrere le giornate in casa senza la possibilità di confrontarsi con i propri coetanei non è certamente d’aiuto.
Lo scenario peggiore è quello in cui l’adulto autistico viene costretto ad assumere farmaci non efficaci , magari dopo esser stato ricoverato in strutture altrettanto inadatte. Così, il genitore si pone una domanda che fa tremare i polsi: che ne sarà di lui dopo che io non ci sarò più? Padri e madri che lottano ogni giorno per sfuggire alla tirannia della malattia, insegnando con i gesti cos’è l’indipendenza e come ottenerla, sono eroi silenziosi.
Dare la vita una volta attiene alla biologia, rinnovarla salvando dal baratro la dignità umana è altra cosa, e richiede una soglia di sopportazione del dolore quasi sovrannaturale
Quando le cose non mi divertono, mi ammalo (H.B.)
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