Casa è dove la costruisci. Il progetto di mutuo aiuto degli italiani in Australia
Un visto working holiday e tanta speranza.
Questo il kit base di un italiano emigrato in Australia, terra promessa degli ultimi anni. E se, oltre a voler fare un’esperienza l’intenzione è mettere radici, farsi strada tra burocrazia e nuovo stile di vita può diventare complicato.
Nonostante la volontà di integrazione con gli autoctoni, il primo SOS spaesamento si invia quasi sempre ai propri connazionali. Infatti, se non si ha il classico aggancio nel Paese di destinazione, può capitare di subire un vero e proprio choc culturale.
Cervelli in fuga riuniti
È ciò che è successo a Carlo Guaia, sangue palermitano, trasferitosi a Perth (capitale dell’Australia occidentale) nel 2012, subito dopo la maturità classica. «Quell’anno mio padre ha ottenuto un’offerta di lavoro come medico e a quel punto avevo due opzioni. O restare in Europa o seguire la mia famiglia» Sceglie la seconda opzione.
Nell’ambiente universitario di Scienze Politiche si confronta con individui provenienti da ogni parte del mondo. Ma un occhio rimane sempre puntato sull’inarrestabile flusso migratorio italiano.
«Negli ultimi anni ho notato che tanti giovani professionisti sono arrivati qui per cercare uno spazio nel loro settore» racconta. «E a differenza delle passate generazioni, oggi la nostra comunità non si divide più per regione di provenienza, anzi c’è grande voglia di collaborare tra i figli dei ‘vecchi’ migranti e gli italiani appena arrivati».
Fare rete
Cosa mancava dunque? Una bussola, un posto dove si potesse espletare questa volontà di mutuo aiuto. Un luogo di incontro dove connazionali, professionisti e ricercatori potessero conoscersi e creare contatti.
Da questa intuizione nasce l’Italian Scientists & Professionals Community, un network dove incontrarsi per scambiare competenze e realizzare progetti di cui possa beneficiare l’intera comunità.
Leggi anche: Come mollare tutto e trasferirsi in paradiso (senza farsi ingannare dal serpente)
«Abbiamo organizzato alcune serate nei mesi scorsi – racconta - è stato una maniera per conoscerci e capire la direzione che volevamo dare a questa iniziativa. E l’impatto è stato positivo. È un modo per capire come funziona il mondo del lavoro in Australia e per crearsi un network».
L’iniziativa non è passata inosservata al Governo australiano, che ha conseguentemente inaugurato dei bandi per la ricerca e lo sviluppo ad hoc.
Le testimonianze
«Lavoravo in un grande hotel, bellissimo, ma non c’era speranza di ottenere un contratto lavorativo» dice Federica, 29 anni, emiliana doc, trasferitasi a Perth ormai sette anni fa con il marito olandese.
«Cercavamo un territorio neutro dove poter mettere a frutto i nostri studi. La scelta è ricaduta sull’Australia». Ma anche lì, inizialmente, non è stato facile: ad aspettarli, una lunga trafila di lavori, i più disparati, per approdare infine ad un’agenzia di design e web marketing. Finchè Federica non decide di mettersi in proprio.
Leggi anche: Lavori assurdi? Barista in bikini nelle miniere australiane
Quando ha sentito del progetto di Guaia ha subito voluto farne parte. «Di solito non mi lascio mai coinvolgere dalle iniziative italiane – spiega - ma ho capito subito che questa idea poteva funzionare». Lo spirito dell’Italian Scientists & Professionals’ Community l’ha colpita: «Credo molto nella trasmissione delle conoscenze e questa iniziativa ci permette di farlo – spiega -, non si tratti di semplici incontri ma di un progetto a lungo termine».
Nostalgia dell’Italia? Nessuna. «Vivendo all’estero ho capito che noi giovani accettiamo troppe cose senza ribellarci».
Discorso diverso per Danilo, 33 anni, che, con un dottorato in informatica, ha comunque scelto di andar via dall’Italia perché le condizioni contrattuali non sarebbero mai state buone come in Australia. Sottolinea inoltre che nella terra dei canguri il legame tra università e lavoro è molto più forte. Nel Bel Paese gli atenei sono ancora eccessivamente roccaforti del sapere teorico.
«I professionisti che arrivano qui spesso non hanno contatti e vivono un periodo di spaesamento – ammette- Ma con questa iniziativa riescono subito a mettere le loro competenze a servizio della comunità. E, al contrario di quanto si creda in Italia, questo progetto dimostra che il settore privato e quello accademico possono incontrarsi e produrre ottimi risultati».