Crowd work: il lavoro del futuro o il futuro del lavoro?
Lavoro-folla.
Già la traduzione letterale di crowd work fa riferimento a qualcosa di sommario e caotico.
Casuale…
Instabile...
…Precario?
Tuttavia rappresenta senza ombra di dubbio una delle forme lavorative 2.0, che possiamo annoverare tra le numerose opzioni professionali nate nell’era digitale.
Come funziona il crowd work?
Esistono una marea di piattaforme ad hoc dove vengono pubblicate offerte di lavoro, normalmente rivolte a una platea molto vasta.
Chi arriva per primo e richiede il compenso minore si aggiudicherà il task. Una sorta di asta di persone, disponibile a tutte le ore, tutti i giorni, su qualsiasi social e da qualsiasi parte del mondo.
Che tipo di compiti si possono svolgere? Molto dipende dalla piattaforma utilizzata. Da Mechanical Turk, gestita dal colosso Amazon, che richiede ad esempio traduzioni o trascrizioni di registrazioni, a Zooppa, fondata in Italia ma con sede negli USA e specializzata in campagne pubblicitarie dal basso, o ancora Task rabbit, che punta invece più sui lavoretti manuali casalinghi.
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Quali sono le conseguenze del crowd work?
Chiaramente, come per qualsiasi categoria in evoluzione, esistono pro e contro. Il crowd worker esula da contratti, spazi e tempi lavorativi. Nella teoria può dunque svolgere il suo lavoro, dove e quando vuole.
Perfetto per chi odia i vincoli, si annoia a far sempre la stessa attività e non vuole sottostare a tempi e modi di lavoro di un’azienda tradizionale. Ideale anche per chi ha bisogno di qualche somma extra per arrivare a fine mese.
La contraddizione sorge nel momento in cui 18,5 milioni di persone fanno riferimento a queste piattaforme come necessità quotidiana, facendo della cosiddetta gig economy la propria fonte principale di reddito.
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Poco male, se non riesci a trovare un lavoro fisso. Il grande vantaggio della rete è regalare a tutti una possibilità, anche se abiti nel luogo più sperduto del mondo. Da una piccola stanzetta di Moncenisio si può entrare in contatto con colossi come Google, Facebook o Walt Disney Company.
Tuttavia anche il crowd work ha i suoi lati oscuri. Ad esempio? A detta degli stessi crowdworkers, essere pagati in maniera ridicola, al di sotto del reddito minimo, risultando privi di qualsiasi norma di sicurezza o diritti. Per non parlare della spietata concorrenza ai liberi professionisti che, di questo passo, verranno sempre più esclusi dal mercato.
Lukas Biewald, amministratore delegato della piattaforma americana CrowdFlower ha affermato: « Prima dell’avvento di internet, sarebbe stato particolarmente difficile trovare qualcuno disponibile a lavorare per te dieci minuti per essere poi subito licenziato. Ma grazie a queste tecnologie ora puoi effettivamente trovare qualcuno, corrispondergli un compenso irrisorio per poi sbarazzartene non appena non ne hai più bisogno».
Alcuni dati sul crowd working
Tuttavia, al di là delle opinioni personali, il crowd working è una realtà innegabile. Il rapporto della banca mondiale intitolato The Global Opportunity in Online Outsourcing, stima un fatturato da esso derivante di 25 miliardi di dollari. Le piattaforme digitali di questesto tipo su scala globale sono circa 2300.
Amazon Mechanical Turk ha dichiarato 500.000 iscritti in 290 paesi diversi. Odesk, portale che mette in contatto freelance e lavoratori indipendenti ha contrattualizzato 14 milioni di persone in India. L’australiana Freelancer.com conta 14,5 milioni di iscritti con 7, 5 milioni di progetti.
Legiferare sul crowd working
Vista l’enorme diffusione di questa categoria professionale la domanda che ci si fa più frequentemente è: come regolamentare la figura del co-worker?
Le idee risultano diverse a seconda del Paese. In Inghilterra ad esempio la giurisprudenza è orientata a qualificare i crowd workers come lavoratori che, anche se impossibili da considerare indipendenti, godono di alcune tutele basilari.
In Germania sono assimiliati nell’ottica di “persone simili a lavoratori subordinati” e inquadrati momentaneamente come consumatori nell’attesa di applicare relativi istituti di professione.
In Italia invece si parla di uno statuto dei diritti dei lavoratori, siano essi subordinati, autonomi o parasubordinati ipotizzando di estendere ai corwdworkers alcuni diritti generalmente riservati ai lavoratori subordinati.
Il crowdworking può insomma risultare una grande sconfitta o una grande risorsa. Dipende se viene regolamentato in modo costruttivo.