Droni, guerra comoda e senza eroi
Obiettivo? Eliminare il cattivo.
Scovarlo ed ucciderlo, proprio come in un videogioco. Differenza? I nemici sono in carne e ossa. Ma gli effetti sonori sono ovattati e un eco di urla lontane attutisce la consapevolezza dei propri gesti. Anche le recenti immagini dell'attentato di Nizza hanno dell' incredulo. Una strage compiuta con la freddezza di un gamer che manovra un joystick.
Non c’è più confine tra playstation e macchine da guerra. I nuovi soldati sono esperti di Xbox e fanno pratica su Call of duty. Centrano gli obiettivi e rimangono ad osservare il frutto del loro operato. Ma le figurine sullo schermo sono talmente piccole da non sembrare umane, il sangue diventa migliaia di pixel rossi.
Un tempo fare il soldato aveva qualcosa di nobile: durante la battaglia si affrontava il nemico faccia a faccia, e ciascun combattente aveva il 50% di possibilità di essere ucciso. Ora “spade e lance” si direzionano rimanendo comodamente seduti in poltrona, sorseggiando caffè.
Recentemente il cinema ha dato spazio alla rappresentazione della guerra silenziosa, fenomeno ormai diffuso ma ancora troppo poco conosciuto. Film come Good Kill (di Andrew Niccol, regista di The Truman show), ambientato in un alienante deserto del Nevada,in cui Ethan Hawke, capitano dell’esercito, passa le sue giornate a far fuori il nemico con un click. Ma non riesce sempre a colpire esclusivamente l’obiettivo. Una volta sganciato il missile, passano almeno dieci secondi prima dell’impatto. E in quell’arco di tempo non si ha più margine di manovra, anche se nell’area sono presenti donne, bambini o altri civili. Stesso tema per Il diritto di uccidere, con Helen Mirren, che riapre nuovamente lo scenario su una guerra che ha più conseguenze psicologiche che fisiche.
I nuovi reduci infatti non hanno bisogno di crocerossine, ma piuttosto di uno psicologo. I soldati vengono spesso assunti a contratto. Una volta terminato il loro compito, rimangono abbandonati a solitudine e sensi di colpa. Molti si danno all’alcol e soffrono di depressione ed esaurimento nervoso. Perché, anche se il drone agisce a migliaia di chilometri, le conseguenze a livello psichico si avvertono.
Quale effetto sull’opinione pubblica?
La guerra digitale è da inserire in un discorso più ampio. La guerra e le sue conseguenze erano fisicamente visibile. Una volta si scendeva in piazza per esprimere il proprio sdegno,si aprivano dibattiti tra intellettuali, si cercava di capire. In poche parole: ci si metteva la faccia.
Oggi sui social siamo tutti opinionisti e la lotta per i propri ideali si svolge a colpi di insulti, comodamente nascosti dietro al proprio avatar. Per questo credo che la guerra con i droni rientri in un fenomeno che sta colpendo l’intera società: la disumanizzazione e la perdita di identità, un anonimato comodo quanto sterile, in cui gli agnelli diventano i leoni.
Una realtà che ormai si muove sul piano virtuale, rinchiusi in una scatola asettica in cui si ha solol’impressione di influire concretamente. Una realtà ovattata, priva di responsabilità. Più comoda ma meno vera.
Obiettivo? Eliminare il cattivo.
Scovarlo ed ucciderlo, come in un videogioco. Differenza? I nemici sono in carne e ossa. Ma gli effetti sonori sono ovattati e un eco di urla lontane attutisce la consapevolezza dei gesti. Stragi compiute con la freddezza di un gamer che manovra un joystick.
Non c’è più confine tra playstation e armi da guerra. I nuovi soldati non fanno addestramento, ma sono esperti di Xbox e acquisiscono esperienza su Call of duty. Centrano gli obiettivi e rimangono ad osservare con distacco il frutto del loro operato. Ma le figurine sullo schermo sono talmente piccole da non sembrare umane, il sangue si trasforma in migliaia di pixel rossi.
Un tempo essere soldati aveva anche qualcosa di nobile: durante la battaglia si affrontava il nemico corpo a corpo, e ciascun combattente aveva il 50% di possibilità di essere ucciso. Ora “spade e lance” si direzionano rimanendo comodamente seduti in poltrona.
Recentemente il cinema ha dato spazio alla rappresentazione della "guerra silenziosa", agita dai robot, fenomeno ormai diffuso ma troppo poco conosciuto. Film come Good Kill (di Andrew Niccol, regista di The Truman show), ambientato in un alienante deserto del Nevada: Ethan Hawke, capitano dell’esercito, passa le sue giornate a far fuori il nemico con un click. Ma non riesce sempre a colpire esclusivamente l’obiettivo prestabilito. Una volta sganciato il missile, passano almeno dieci secondi prima dell’impatto e in quell’arco di tempo non si ha più margine di manovra. Anche se nell’area sono presenti donne, bambini o altri civili. Stesso tema per Il diritto di uccidere di Gavin Hood, che riapre nuovamente lo scenario su una guerra che ha più conseguenze psicologiche che fisiche su chi la combatte.
I nuovi reduci non hanno bisogno di crocerossine, ma piuttosto di uno psicologo. I soldati vengono spesso assunti a contratto; una volta terminato il loro compito, rimangono abbandonati a solitudine e sensi di colpa. Molti si danno all’alcol e soffrono di depressione ed esaurimento nervoso. Perché, anche se il drone agisce a migliaia di chilometri, le conseguenze a livello psichico si avvertono.
Quale effetto sull’opinione pubblica?
La guerra coi droni è da inserire in un discorso più ampio. Una volta lo scontro e le sue conseguenze erano fisicamente visibili. Si scendeva in piazza per esprimere il proprio sdegno, si aprivano dibattiti tra intellettuali, si cercava di capire. In poche parole: ci si metteva la faccia.
Oggi sui social ogni cosa è filtrata da uno schermo, siamo tutti opinionisti e la lotta per i propri ideali si svolge a colpi di insulti, comodamente nascosti dietro al proprio avatar. Per questo credo che la guerra con i droni rientri in un fenomeno che sta colpendo l’intera società: la disumanizzazione e la perdita di identità, un anonimato comodo quanto sterile, in cui gli agnelli diventano leoni. E chi agisce davvero non assume molta rilevanza perchè la presenza sul web è indirettamente proporzionale ai gesti concreti.
Una realtà che, paradossalmente, si muove sul piano virtuale, rinchiusa in una scatola asettica in cui si ha solo l’impressione di influire concretamente. Ovattata, priva di responsabilità. Più comoda ma meno vera.
IRENE CALTABIANO
Blogger impavida
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