Evitamento: perché fuggire da ciò che temiamo ci fa solo stare peggio
Uno dei pilastri (?) su cui si è fondata l’educazione di intere generazioni è stata la paura preventiva
Se non finisci di mangiare, stanotte viene l’uomo nero a prenderti
Evitare qualunque rischio, nel presente ed ancor più nel futuro. È questo il principio che molte madri hanno pervicacemente provato a inculcare nei figli, da 0 a 99 anni. In questo caso, però, amore viscerale fa rima con errore madornale.
Cancellare del tutto le incognite che potrebbero farci male è semplicemente impossibile. Andrebbe contro la stessa essenza della vita. Ed anche ammettendo di riuscirci, quale e quanto sforzo comporterebbe la ricerca sistematica di una schermatura da eventuali emozioni spiacevoli?
Si può riassumere così la dannosità latente ma invalidante dell’evitamento, comportamento che, se assume proporzioni e frequenza disfunzionali, può diventare tratto caratteristico del Disturbo Ossessivo Compulsivo (Doc), del disturbo post-traumatico da stress, di ansia e depressione.
Come si definisce in psicologia l’evitamento?
Il termine indica un complesso di comportamenti finalizzati a impedire anticipatamente l’esposizione a situazioni, luoghi o persone percepiti (a torto, o in misura sproporzionata alla realtà) come forieri di rischi.
Come una valigia, l’evitamento nasconde un doppiofondo: l’incapacità di accettare ed imparare a convivere con stati d’animo dolorosi, disturbanti, scomodi. Insomma, sintomi di una fragilità che, agli occhi di chi ne è portatore, risulta insostenibile e inaccettabile. Nel (vano) tentativo di soffocarla, però ci si condanna a qualcosa di ancora peggiore: una sofferenza che si autoalimenta a tempo indeterminato ed un’autostima che si scarnifica silenziosamente ma incessantemente.
Tale comportamento sfocia nella patologia quando restringe considerevolmente il nostro raggio d’azione sulla realtà. Se l’evitamento ci impedisce di arricchire ed approfondire il nostro bagaglio di esperienze, è inutile e fallimentare. Sconfessa in pieno la finalità adattiva originaria, vale a dire, metterci al riparo da minacce altamente probabili e dall’apprezzabile portata.
Come intervenire, quindi, sull’evitamento? La risposta arriva dalla terapia cognitivo-comportamentale: interrompere il circolo vizioso è possibile solo esponendoci gradualmente a ciò che temiamo. Alla situazione, luogo o persona che percepiamo come minacciosi, e quindi al vissuto emotivo ad essi associato. Sarà un sollievo, così, realizzare, che gran parte della loro portata negativa esisteva solo nei nostri pensieri o meglio, ruminazioni. E l’autostima, rinvigorita dal nostro atto di coraggio, (ci) dirà: “finalmente…era ora che ti decidessi”.
La redazione
Quando le cose non mi divertono, mi ammalo (H.B.)
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