Fenomeno reshoring: la schiavitù in un paio di scarpe
Un paio di ballerine.
Un comodo stivaletto, delle décolleté per una serata elegante. Calzature che usiamo per una stagione e che spesso finiscono nel cassonetto appena sei mesi dopo.
Potrebbero essere riparate? Sì. Ma a volte il prezzo di un paio di scarpe nuove è così basso che non vale nemmeno la pena farle passare dalle mani di un calzolaio.
Se a noi questa situazione regala un illusorio risparmio c’è sempre qualcuno che ne fa le spese. E, chissà perché, spesso sono le parti più povere del mondo.
Una filiera poco trasparente
La produzione di scarpe parte sempre dalla progettazione del modello, a cui fa seguito la manifattura della tomaia (parte superiore della scarpa)e infine il montaggio dell’intero prodotto.
L’azienda a quel punto può scegliere se confezionare la calzatura tramite una produzione esclusivamente interna o spostare la manifattura anche all’esterno. Scelta, quest'ultima, operata dalla maggioranza dei grandi marchi.
L’azienda portavoce delle molte esterne che vengono utilizzate si chiama capofiliera, tutte le altre sono i subfornitori. Benché i grossi brand stipulino contratti di fornitura con poche imprese, in realtà il numero di aziende che entra nella catena è molto più ampio, per abitudine dei terzisti a cedere sempre il lavoro a società di livello inferiore.
Risultato? "Più si scende giù per la filiera, più i prezzi si riducono perché ogni livello tenta di guadagnare su quello successivo, trattenendo parte del prezzo pattuito col proprio committente". ( Report Change your shoes) Come far fronte a questo circolo vizioso?
Cambia le tue scarpe
Si chiama Change your shoes la nuova campagna di Abiti puliti, rete di più di 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale.
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Il report del progetto descrive il viaggio compiuto nelle filiere produttive di tre marchi globali di calzature ( Tod’s, Geox e Prada), mostrando quanto questa industria sia ancora lontana dal riconoscimento dei diritti lavorativi e, in alcuni casi, persino umani.
Fenomeno reshoring
Il reshoring indica il trasferimento in direzione contraria delle attività produttive precedentementedelocalizzate in Estremo Oriente. Ad essere interessati in particolare i Paesi dell’Europa dell’Est, con salari ancora più bassi di quelli asiatici.
Perché negli ultimi anni sta prendendo piede questo fenomeno? L’aumento di produttività, legato alla maggiore flessibilità del lavoro e libertà di licenziamento rende di nuovo appetibile la vecchia Europa che presenta una tradizione artigianale e manifatturiera di lunga data. La semplice etichetta made in EU infatti è già di per sé garanzia di qualità e di alti standard.
Il prezzo di tale gestione ? Condizioni sanitarie inesistenti, offese verbali ai lavoratori, norme di sicurezza insoddisfacenti, forme di assunzione irregolari.
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La poca informazione e l’impossibilità di tracciamento di numerose filiere produttive favoriscono ogni tipo di violazione lontano dagli sguardi dei consumatori. E spesso l’ostacolo alla denuncia è proprio la paura, il terrore dei dipendenti di perdere quel posto di lavoro che , anche se misero, garantisce la sopravvivenza.
Un percorso complicato che è anche diventato un documentario, In my shoes, di Sara Farolfi e Mario Poeta, che raccoglie alcune di queste voci.
Scarpe di cristallo
A fronte di tutta questa situazione, cosa chiede Abiti puliti? Scarpe “più trasparenti”. Tod’s, Prada e Geox devono garantire maggiore chiarezza nella loro catena di fornitura e il rispetto dei diritti del lavoro, in primis il pagamento di salari dignitosi.
Nello stesso tempo intima ai governi nazionali e alle istituzioni europee di applicare maggior controllo, obbligando le aziende a rendere le catene di fornitura più limpide, riducendo l’impatto negativo sul capitale umano.
Coa possiamo fare noi? Cedere meno al consumismo e concedere alle scarpe una seconda vita. Solo così si potrà fare tanta strada.
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