Italiani esperti di Internet quando c’è da perdere tempo. Ma se bisogna cercare lavoro…
10.05.2017 17:20
Italiani esperti di Internet quando c’è da perdere tempo. Ma se bisogna cercare lavoro…
Whatsapp, Facebook, Snapchat, Instagram.
Sempre più, a scandire le nostre vite non è l’alternarsi delle stagioni o il verificarsi di eventi oggettivamente significativi nell’ambito privato e/o professionale, quanto piuttosto la quantità di notifiche macinate giornalmente sui social.
Alla vita reale si affianca e/o sostituisce quella virtuale, con chiare – e talvolta pesanti – ripercussioni sull’equilibrio psico-fisico degli individui. Ma non basta, alla bulimia da social, in Italia, fa da contrappunto una diffusa mancanza di dimestichezza con la tecnologia. Insomma, sembra che il web piaccia e conquisti quando serve a distrarsi e oziare, mentre assume le sembianze di un’entità arcigna e inospitale, paradossalmente, laddove potrebbe facilitare attività significative come la ricerca di lavoro, l’home banking o la pianificazione di un viaggio. A fornire gli (allarmanti) dati che descrivono il fenomeno è Eurostat.
Uomini e donne accomunati dalla diffidenza verso l’Internet utile
Gli italiani si caratterizzano per un mix di sospetto, scetticismo e pigrizia, quando si tratta di svolgere online operazioni minimamente complesse. Scorrendo i numeri relativi l’utilizzo della Rete per operazioni di e-commerce e home banking emerge infatti un marcato divario tra i nostri connazionali e inglesi, francesi e tedeschi. Il problema investe in misura analoga i due generi, e ci colloca agli ultimi posti della classifica europea. Peggio di noi solo Turchia, Bulgaria, Macedonia e Romania.
Una tendenza, questa, che va ricollegata al cronico, endemico, ritardo accumulato dal nostro Paese in concomitanza delle principali rivoluzioni digitali, a partire dagli anni Ottanta. Anche la classe politica ha giocato un ruolo, in tal senso: sono infatti mancati energici e decisi interventi e misure di sistema volti non solo a promuovere l’alfabetizzazione digitale, ma anche e soprattutto a creare la cultura dell’esemplificazione telematica. A pensar male, c’è da supporre che mantenere una spiccata affezione per la carta sia stato funzionale a tenere in vita, pressochè indisturbata, una burocrazia a volte ipertrofica.
Lavorare, per le donne, resta due volte faticoso. In ambito tecnologico, poi, sembra essere un’impresa
Ad aggravare il già sconfortante quadro complessivo c’è poi la specifica condizione femminile, la cui collocazione in ambito lavorativo è spesso frutto di dolorosi compromessi, se non proprio di scelte obbligate. Il divario nel numero di occupati tra i due generi, In italia, sfiora il 20%; numeri più preoccupanti arrivano solo da Turchia, Malta e Macedonia.
Nel nostro Paese non lavora una donna su due. La situazione non è molto diversa da quella che caratterizza l’area musulmana. La tendenza generale rispecchia la situazione specifica dell’ICT (Information and Communication Technology), dove la componente femminile occupata è meno di un terzo di quella inglese e tedesca, e pari al 14,2% del totale. Perfino la Spagna, con 13 milioni di abitanti in meno e un maggiore tasso di disoccupazione, fa meglio.
Comparando il rapporto gap occupazionale/presenze femminili nell’ICT, nei vari Paesi, l’Italia è prima, seguita da Grecia e Romania.
Un dato che, a una prima, superficiale, occhiata appare incredibile è poi quello relativo alle donne che non hanno usato il pc negli ultimi tre mesi. Considerando quelle con un’istruzione medio-alta, si arriva al 13%, a fronte del 3% di Spagna e del 4% della Francia. Corollario forse quasi inevitabile è che, prendendo a campione la popolazione femminile tra 25 e 29 anni, quella che teoricamente dovrebbe essere impegnata (su tutti i fronti) nella ricerca di un lavoro, la cifra si attesta al 25%. Solo la Turchia riesce a scipparci l’ultimo posto.
Un’analisi, quella di Eurostat, che, sulla base dei grandi numeri, ci restituisce l’immagine di un Paese sonnolento, apatico, poco propenso a mettersi in gioco e migliorarsi. Un Paese che non vuole bene alle donne e che, per cambiare direzione, dovrebbe innanzitutto scrollarsi energicamente di dosso il retaggio culturale degli ultimi cinquant’anni. Il passo successivo, inevitabile e salvifico, sarebbe quello di acquisire maggiore consapevolezza e selettività nella scelta della classe politica. Perché solo migliorando noi stessi e il microsistema sociale che ci circonda possiamo sperare di incidere sostanzialmente sulla collettività tutta, e sull’epoca che viviamo.
Whatsapp, Facebook, Snapchat, Instagram
Sempre più, a scandire le nostre vite non è l’alternarsi delle stagioni o il verificarsi di eventi oggettivamente significativi nell’ambito privato e/o professionale, quanto piuttosto la quantità di notifiche macinate giornalmente sui social.
Alla vita reale si affianca e/o sostituisce quella virtuale, con chiare – e talvolta pesanti – ripercussioni sull’equilibrio psico-fisico degli individui. Ma non basta, alla bulimia da social, in Italia, fa da contrappunto una diffusa mancanza di dimestichezza con la tecnologia. Insomma, sembra che il web piaccia e conquisti quando serve a distrarsi e oziare, mentre assume le sembianze di un’entità arcigna e inospitale, paradossalmente, laddove potrebbe facilitare attività significative come la ricerca di lavoro, l’home banking o la pianificazione di un viaggio. A fornire gli (allarmanti) dati che descrivono il fenomeno è Eurostat.
Uomini e donne accomunati dalla diffidenza verso l’Internet utile
Gli italiani si caratterizzano per un mix di sospetto, scetticismo e pigrizia, quando si tratta di svolgere online operazioni minimamente complesse. Scorrendo i numeri relativi l’utilizzo della Rete per operazioni di e-commerce e home banking emerge infatti un marcato divario tra i nostri connazionali e inglesi, francesi e tedeschi. Il problema investe in misura analoga i due generi, e ci colloca agli ultimi posti della classifica europea. Peggio di noi solo Turchia, Bulgaria, Macedonia e Romania.
Una tendenza, questa, che va ricollegata al cronico, endemico, ritardo accumulato dal nostro Paese in concomitanza delle principali rivoluzioni digitali, a partire dagli anni Ottanta. Anche la classe politica ha giocato un ruolo, in tal senso: sono infatti mancati energici e decisi interventi e misure di sistema volti non solo a promuovere l’alfabetizzazione digitale, ma soprattutto a creare la cultura dell’esemplificazione telematica. A pensar male, c’è da supporre che mantenere una spiccata affezione per la carta sia stato funzionale a tenere in vita, pressochè indisturbata, una burocrazia a volte ipertrofica.
Lavorare, per le donne, resta due volte faticoso. In ambito tecnologico, poi, sembra essere un’impresa
Ad aggravare il già sconfortante quadro complessivo c’è poi la specifica condizione femminile, la cui collocazione in ambito lavorativo è spesso frutto di dolorosi compromessi, se non proprio di scelte obbligate. Il divario nel numero di occupati tra i due generi, In italia, sfiora il 20%; numeri più preoccupanti arrivano solo da Turchia, Malta e Macedonia.
Nel nostro Paese non lavora una donna su due. La situazione non è molto diversa da quella che caratterizza l’area musulmana. La tendenza generale rispecchia la situazione specifica dell’ICT (Information and Communication Technology), dove la componente femminile occupata è meno di un terzo di quella inglese e tedesca, e pari al 14,2% del totale. Perfino la Spagna, con 13 milioni di abitanti in meno e un maggiore tasso di disoccupazione, fa meglio.
Comparando il rapporto gap occupazionale/presenze femminili nell’ICT, nei vari Paesi, l’Italia è prima, seguita da Grecia e Romania.
Un dato che, a una prima, superficiale, occhiata appare incredibile è poi quello relativo alle donne che non hanno usato il pc negli ultimi tre mesi. Considerando quelle con un’istruzione medio-alta, si arriva al 13%, a fronte del 3% di Spagna e del 4% della Francia. Corollario forse quasi inevitabile è che, prendendo a campione la popolazione femminile tra 25 e 29 anni, quella che teoricamente dovrebbe essere impegnata (su tutti i fronti) nella ricerca di un lavoro, la cifra si attesta al 25%. Solo la Turchia riesce a scipparci l’ultimo posto.
Un’analisi, quella di Eurostat, che, sulla base dei grandi numeri, ci restituisce l’immagine di un Paese sonnolento, apatico, poco propenso a mettersi in gioco e migliorarsi. Un Paese che non vuole bene alle donne e che, per cambiare direzione, dovrebbe innanzitutto scrollarsi energicamente di dosso il retaggio culturale degli ultimi cinquant’anni. Il passo successivo, inevitabile e salvifico, sarebbe quello di acquisire maggiore consapevolezza e selettività nella scelta della classe politica. Perché solo migliorando noi stessi e il microsistema sociale che ci circonda possiamo sperare di incidere sostanzialmente sulla collettività tutta, e sull’epoca che viviamo.