Lavorare in proprio (Prima parte)

La fredda cronaca.

Siamo sempre qui a lamentarci perché la crisi ci ha portato via il lavoro o perché quello che abbiamo è malpagato e insoddisfacente. Migliorare la propria condizione di vita, anche a livello professionale, è una sacrosanta pretesa. Cosa facciamo di concreto, però, per cambiare la situazione?

Il più delle volte ci limitiamo a inviare la nostra candidatura ad aziende che, in modo del tutto arbitrario, riteniamo possano offrirci quel qualcosa in più di cui abbiamo bisogno. Puntualmente rimaniamo delusi nel constatare che perfino ottenere un colloquio è ormai un’impresa titanica e laddove fossimo i fortunati vincitori di una selezione, scopriremmo comunque che ci stanno offrendo le briciole. Qual è la nostra percentuale di responsabilità, in tutto questo? Siamo sicuri di avere il diritto di atteggiarci a vittime?

Quando cambia qualcosa, cambia tutto.

Warren G. Bennis, uno dei massimi esperti di leadership a livello mondiale, un giorno disse: «Se continui a fare quello che hai sempre fatto, continuerai a ottenere ciò che hai sempre avuto»Mai pensiero fu più illuminante. Come possiamo pensare di cambiare veramente qualcosa nella nostra esistenza se non usciamo mai dalla famosa zona di conforto?

Siamo cresciuti in un’epoca in cui lavorare significa bussare alla porta di qualcuno, chiedendo cortesemente che ci dia un’opportunità. Non concepiamo altre possibilità: per assicurarsi un salario occorre avere un capo che ci comandi a bacchetta e accontentarsi di una mansione per la quale non nutriamo il minimo interesse. Il che, oltre a magri guadagni, comporta in genere l’insorgenza della sindrome del colon irritabile.

Siamo adulti o bambini?

Essere “dipendenti” non significa lavorare per qualcuno ma ritenere inconsciamente di non essere in grado di provvedere da soli al proprio sostentamento. È una forma di nevrosi infantile che colpisce noi adulti di oggi e ci costringe a un presente pieno di conflitti e frustrazioni. Lo psicologo e autore Giulio Cesare Giacobbe sostiene che bambino è colui che siede ai piedi dell’albero di castagne in attesa che qualcuno gliene tiri giù un po’, mentre adulto è chi ha il coraggio di arrampicarsi e cogliersele da solo.

Sembra la fotografia della situazione attuale: pochi adulti in cima agli alberi e tanti bambini di sotto a frignare. L’esatto opposto della vita che hanno fatto i nostri nonni, quando lavorare significava saper fare qualcosa con le proprie mani, aprire una bottega e guadagnarsi il pane quotidiano.

Si tratta quindi di prendere una decisione e stabilire chi si vuole essere, accettando i rischi che tale scelta comporta. Perché continuare a trincerarsi dietro alla parola “sicurezza” (quella del lavoro dipendente, più che del posto fisso) è una manifesta ammissione della paura di assumersi delle responsabilità. La crisi, quella vera, nasce proprio così: si smette di piantare nuovi alberi, ci si dimentica come effettuare il raccolto e ci si ritrova a bocca spalancata come pulcini che reclamano il becchime. Il risultato è che i rami si svuotano, le castagne vengono razionate e molti restano immancabilmente a digiuno.

Non è un caso che società culturalmente più adulte di altre come gli Stati Uniti, Israele, la Gran Bretagna e i paesi del Nord Europa, seppur inizialmente abbiano registrato anch'essi una flessione, siano da tempo in netta ripresa. Da quelle parti, uno studente universitario che sta per laurearsi concepisce come prima opzione lavorativa quella di lanciare una start up assieme a qualche compagno di corso, anziché limitarsi a inviare curricula. È così che nascono nuove opportunità per tutti.
Nella seconda parte di questo articolo vedremo alcuni esempi di chi ha messo in moto il cervello, si è armato di coraggio e ha fatto il grande salto. Esattamente come i nostri nonni.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 

 

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