Non chiamateci vitelloni! ecco chi sono davvero i millenials

Ci chiamano così.

A volte anche Generazione Y, bamboccioni, choosy. Dipinti più simili agli scansafatiche dell’immaginario felliniano che agli sfortunati protagonisti di Tutta la vita davanti. Ma le etichette a volte, più che semplificare, confondono. I millenials altro non sono chi un tempo chiamavano i giovani adulti, i nati dagli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, di età compresa tra i 16 e i 34 anni.  Un target molto interessante ma ancora poco definito e confuso.

I primi ad essere incerti sulla propria identità sono i millenials stessi. Secondo il rapporto COOP 2016, ( Associazione nazionale cooperative dei consumatori), documento che dà un quadro generale della situazione italiana, è la generazione che più di altre incarna lo sconvolgimento radicale che ha travolto strutture sociali ed economiche. E andrebbero capiti e ascoltati più che giudicati.

Faccio parte anch’io della categoria. Vi garantisco che ci siamo sentiti ripetere: «Ai miei tempi si lottava e ci si sacrificava per quella che si voleva»«Quando ero giovane facevamo le rivoluzioni»C’è una discrepanza rispetto alla generazione X o ai baby boomers: i ragazzi sono sempre stati il simbolo di futuro e progresso. Oggi, in un certo senso, sono gli invisibili, la categoria con il livello più basso di occupazione e tasso di genitorialità ai minimi storici.

Criticare senza dare gli strumenti reali per migliorarsi è decisamente politically incorrect da parte degli "anziani del villaggio globale". Chi mai si è soffermato a pensare al perché di tante abitudini comuni, come il disimpegno politico, l’astensione elettorale, la disponibilità ad emigrare all’estero pressocchè assoluta? Forse ciò che manca non è né la volontà, né la flessibilità, ma solo un valido interlocutore.

É necessario uscire dagli schemi tradizionali di giudizio semplicemente perché certe categorizzazioni non esistono più. Gli stili di vita e il mondo sono cambiati. Sarà forse la società liquida di cui parlava il filosofo Zygmunt Bauman? Lo studioso polacco affermava la scomparsa di un’entità capace di risolvere in modo omogeneo i problemi del nostro tempo, di crisi dello Stato, dei partiti. In generale, di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di un entità che interpretava i suoi bisogni.

Gli stacanovisti del nuovo millennio

Uno dei punti più significativi del cambio generazionale  è l’approccio al lavoro. Consapevoli della precarietà dei contratti lavorativi, i millenials entrano nel mondo professionale muniti dello scudo della flessibilità e della lancia della resilienza e in tasca una buona dose di compromesso. Da dati CENSIS, 2,3 milioni di giovani svolgono un lavoro più basso e meno pagato rispetto alle loro qualifiche. Un milione ha lavorato in nero almeno una volta e circa quattro hanno iniziato con un percorso di stage non retribuito.

Peraltro, ci sono un paio di elementi da considerare. L’iperconnettività, ovvero la possibilità di stare su Internet 24/24 H, ha abbattuto le barriere lavorative, rendendoci continuamente reperibili. Ciò non ha però generato altrettanta flessibilità di orari e luoghi di lavoro, ma è diventato un plus alle classiche otto ore.

I lati positivi

Le carte a nostro favore ci sono e, al di là dell’opinione comune, sappiamo sfruttarle abbastanza bene. Siamo i primi a essere cresciuti immersi nel digitale. Abbiamo grande padronanza delle tecnologie, competenza che ha portato alla fondazione di 1200 startup, tutte a gestione giovanile.

Poco quotati nelle statistiche tradizionali, ma onnipresenti su Internet. Nel bene e nel male, basta digitare il nostro nome su Google per sapere come ci vedono gli altri, anche un potenziale datore di lavoro. Multitasking, scriviamo su Facebook mentre guardiamo la tv e parliamo al cellulare. Abbiamo alimentato la comunicazione orizzontale, non più a senso unico, con tutte le conseguenze positivie e negative del caso. 

Molto più attenti agli inganni della rete, sappiamo distinguere con naturalezza un vero contenuto da un messaggio pubblicitario. Siamo più insicuri e meno ottimisti forse, ma ciò contrasta con la scala di valori emersa dai dati delle ricerche. La carriera può essere sacrificata in cambio della salute e del tempo libero da dedicare alle relazioni. Un altro punto a nostro favore è l’apertura verso altre culture, l'europeismo alimentato dalle esperienze Erasmus. Abbiamo pochi soldi ma non vogliamo rinunciare alla qualità dei progetti: così ci siamo inventati il crowdsourcing e il crowdfunding. Votati alla poliedricità,nella nostra vita non c'è nulla di fisso. Figuriamoci il posto.

Mica male per dei fannulloni, no? 

 

di Irene Caltabiano

 

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