Se Google si fa tribunale, vince il nascondino dei reati?
09.05.2016 15:24
Nascondere i panni sporchi sotto il tappeto, eliminare link diffamatori dal web, veri o falsi, recenti o datati.
In pochi click, ecco che la coscienza torna pulita, come se nulla fosse successo. Recentemente la Corte europea ha sancito la responsabilità di Google nel trattamento di dati personali, nel caso in cui un utente faccia esplicita richiesta di cancellazione di notizie negative sul suo conto. Ma è giusto che la conservazione di una buona fama a livello pubblico superi il diritto all’informazione?
I FATTI
All’origine della sentenza vi è il caso Google Spain. Un cittadino spagnolo aveva cercato di ottenere, prima dal gestore del sito e poi dall'azienda californiana, la rimozione di alcuni dati personali pubblicati su un articolo di giornale ritenuti non più attuali. Su ricorso dell’interessato, l’Agencia Española de Protección de Datos (AEPD), autorità iberica in campo di dati personali, aveva ordinato al colosso di Silicon Valley di rimuovere i dati in questione dai risultati generati attraverso il motore di ricerca. Nello stesso anno, il 17 dicembre 2014, un avvocato della Capitale chiedeva a Google di deindicizzare 14 risultati di ricerca che vedevano il ricorrente protagonista di un’incresciosa vicenda giudiziaria. Si trattava di notizie di cronaca relative a un reato del 2012/2013 che lo vedeva implicato, insieme ad altri personaggi romani, in presunte truffe e guadagni illeciti. La sentenza di condanna non era mai stata effettivamente pronunciata: l’ avvocato chiedeva così alla controparte almeno 1000 euro di risarcimento.
QUAL È IL RUOLO DI GOOGLE
In seguito a fatti simili, Google è stato più volte chiamato in causa. Nel 2014 si adegua alla recente decisione della Corte di giustizia europea sul ''diritto all'oblio'', mettendo a disposizione un modulo da compilare direttamente sul web.
Un portavoce rileva che «per ottemperare alla recente decisione della Corte Europea, abbiamo reso disponibile online un formulario attraverso cui gli europei possono chiedere la rimozione di risultati dal nostro motore di ricerca. La decisione della Corte richiede a Google di prendere decisioni difficili in merito al diritto di un individuo all'oblio e al diritto del pubblico di accedere all'informazione. Stiamo creando un comitato consultivo di esperti che analizzi attentamente questi temi. Inoltre, nell'implementare questa decisione coopereremo con i Garanti della Privacy e altre autorità».
L'azienda californiana inizialmente non era stata così docile, affermando di non essere responsabile di contenuti pubblicati da terzi e ponendosi come semplice entità raccoglitrice di informazione. L’UE l’aveva comunque richiamata a una certa presa di coscienza, intimando di oscurare e deindicizzare i risultati di carattere personale nel caso in cui ci fossero gli estremi per farlo. Quindi è Google stessa che decide quali richieste prendere in carica.
Il provvedimento che doveva ridimensionare Big G gli ha donato, di fatto, ancora più potere. Google si è trovata a gestire la cancellazione di notizie obsolete, fotografie che ritraggono persone che non vogliono più essere associate ad altre, in pose indecenti o situazioni imbarazzanti. Il gigante di Silicon Valley si sarebbe quindi trasformato in un tribunale online, al ritmo di 572 richieste al giorno.
MA È GIUSTO?
Nonostante la collaborazione con i Garanti della privacy dei diversi paesi europei, siamo di fronte a una tendenza per cui la giustizia diventa sempre più un fatto d'azienda, da sbrigare online, da organi che hanno il dovere di collaborare ma che, a mio parere, non possono avere la stessa autorità di giudici terzi.
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La possibilità di Google di eliminare link non solo dà ancora maggior potere sulla gestione del traffico ma lo erge a una sorta di deus ex machina che può operare senza grosso tramite, decidendo cosa valga la pena o meno che resti pubblico. Qual è la soluzione all’altalena tra organi giudiziari reali e trattamento dei dati personali virtuali? Organi imparziali ed indipendenti da qualsiasi tipo di interesse. Forse si dovrebbe investire nella formazione di figure apposite, che siano grandi conoscitori del web e del diritto. Sennò potremmo svegliarci fra vent’anni consapevoli che la giustizia è in mano agli interessi dei big della tecnologia.
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