Se il cibo diventa il tappeto sotto cui nascondere la polvere dell’anima
Mangiare per vivere, o vivere per mangiare?
Chi, per sua fortuna, ha un rapporto sereno e risolto con l’alimentazione forse non si è mai posto il quesito. Quanti invece pur considerando il cibo un piacere, non riescono stabilmente ad approcciarlo in modo equilibrato e consapevole, sanno di cosa parlo.
Per quanto sia paradossale e crudele, non è così infrequente rovesciare un gesto naturale come mangiare, uno dei simboli più forti della vita, in strumento tramite cui punirsi.
Intendiamoci: non ho la pretesa di affrontare temi quali quello della bulimia e dell’anoressia. Non li ho vissuti sulla mia pelle, e quindi riesco a immaginarne solo pallidamente la gravità. D’altra parte, è pacifico che, se il rapporto con il cibo è condizionato dall’ansia e dalla spasmodica (o anche “semplicemente” periodica) ricerca di una coperta di Linus, bisogna ammettere a sé stessi di avere un problema. Indipendentemente dal fatto che, magari, gli effetti esteriori siano meno appariscenti, o che la vita non sia materialmente pregiudicata.
Insomma, non sempre essere normopeso significa saper gestire nel tempo la propria alimentazione.
Quando il cibo diventa “bene rifugio”
Emblematico, in questo senso, l’episodio che ha visto protagonista Drew Barrymore. L’attrice e produttrice statunitense, avvicinata da una fan, alla domanda: “sei di nuovo incinta?”, ha risposto, senza troppi giri di parole: “no, semplicemente ho messo su qualche chilo”.
Ancora una volta Drew Barrymore ha puntato sul suo principale punto di forza. Ovvero, l’autenticità, che le consente di scatenare quasi istantaneamente una sorta di effetto identificazione in molte coetanee, e non solo.
Come ha spiegato l’attrice, l’aumento di peso è stato una delle conseguenze della separazione dall’ex marito Will Kopelman. D’altra parte Drew non ha fatto mistero di essere una buona forchetta, dichiarando che, fosse per lei, passerebbe la giornata a mangiare fettuccine.
Questo dettaglio, per quanto possa apparire banale, credo che ponga l’accento su uno dei principali campanelli d’allarme che “suonano” quando il rapporto con il cibo si trasforma da fisiologico a patologico. Se mangiare è l’unica ragione di vita, il pensiero e l’attività intorno a cui ruota l’intera giornata, è probabile che pizza o biscotti abbiano assunto il ruolo (illusorio) di sfogo e conforto.
Come capire se il cibo si sta tramutando in ossessione?
Non ho intenzione di girarci intorno, perché è di questo che si tratta. Ogni giorno dobbiamo affrontare - e imparare a gestire – una pluralità di scompensi, emotivi, sociali e/o professionali. Mangiare è un piacere, un ingrediente che è il sale (o il pepe, a seconda dei gusti) della vita, ma talvolta la sua “metamorfosi” in chiodo fisso avviene in modo decisamente subdolo.
Può capitare che ad accendere la miccia sia un periodo di stress prolungato e/o sottovalutato, mentre l’inconscio, silenziosamente, scivola per conto proprio. Fino a quando l’ansia e l’angoscia represse raggiungono livelli tali, da esigere una qualche forma di concretizzazione. Così ci ritroviamo a mangiare ben oltre l’appetito da soddisfare, cercando qualcosa che sia in grado di placarci. Il meccanismo si ripete una, due, tre volte. Il gelato può essere sostituito da un secondo piatto di pasta o da un pacco di patatine da 300 gr, ma immutato resta il vuoto interiore che segue l’abbuffata.
Facciamoci caso: il cibo dovrebbe essere un’occasione di gioia. Non è questa, forse, la sensazione che ci accompagna durante un picnic o una grigliata con amici? Se invece dopo aver spazzolato un uovo di Pasqua ci sentiamo in colpa neanche avessimo svaligiato una banca, quasi certamente l’origine della fame non è nello stomaco.
Quando le cose non mi divertono, mi ammalo (H.B.)
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