Se l'industria del tonno è la nuova tratta degli schiavi
22.04.2016 16:54
E se dietro alle scatolette con cui nutriamo i nostri amici animali ci fossero sfruttamento e pesca selvaggia?
L’industria del tonno è ormai fuori controllo. Metodi di pesca distruttivi stanno portando la fauna al collasso, nonché all’estinzione di tantissime specie protette. Ma gli animali marini non sono i soli ad andarci di mezzo. Numerose le inchieste giornalistiche su alcuni colossi dell’industria che hanno calpestato i diritti umani elementari per garantire la produzione. La Thai union, azienda che in Italia vende il tonno Mareblu, è sotto stretta osservazione di Greenpeace e dell’Unione europea già dal 2012. La società asiatica vende non solo al Bel Paese, ma anche ad altri importanti marchi internazionali: Walmart, Riomare, Tesco, Nestlè, Lidl.
La Thai union non solo produce il tonno che portiamo quotidianamente sulle nostre tavole, ma anche quello che versiamo nelle ciotole dei nostri gatti. Non è roba di poco conto: solo negli Stati Uniti il consumo di pesce destinato agli animali è il doppio di quello che consumano gli uomini. In Italia la spesa annuale per le scatolette si aggira intorno ai 1830 milioni.
Traffico umano
Le storie che girano sulla multinazionale sono a dir poco inquietanti: il traffico di centinaia di esseri umani destinati a lavorare sui pescherecci al largo del porto di Ambon, in Indonesia. Migliaia di birmani, tailandesi e cambogiani vittime di lavoro in nero, episodi di violenza e abuso fisico se non addirittura omicidio.
Nel Settembre 2015 Greenpeace ha realizzato una serie di interviste sull’isola indonesiana. Gli interrogati raccontano di lavoratori tenuti in condizioni di prigionia, maltrattati e trattenuti sui pescherecci in condizioni tremende. «Circa quattro o cinque giorni prima che la nave partisse, insieme ad altri sei compagni di equipaggio – uomini che sono ancora a bordo del peschereccio – abbiamo cercato di scappare, ma non ci siamo riusciti. Ci hanno picchiato, e non avevamo nemmeno il permesso di mangiare dopo quell’episodio». «Sono stato picchiato perché non ero forte come gli altri. Quando loro trasportavano blocchi di pesce congelato, io non ce la facevo. Non ero abbastanza forte e veloce per finire il lavoro. Per questo sono stato picchiato a bordo della barca in cui stavo». «Non avevamo il permesso di lasciare la stanza. Un ragazzo ha cercato di scappare, ma è stato picchiato. Un altro è stato percosso fino a che non gli si è rotta una gamba, perciò non abbiamo osato fuggire. Eravamo in tredici. Il ragazzo a cui era stata rotta una gamba era “un avvertimento” per noi, per chiunque volesse fuggire. Per questo non abbiamo avuto il coraggio di scappare».
Cosa possiamo fare
Le storie di queste persone fanno rabbrividire. Ma girarsi dall’altra parte non serve. Dobbiamo capire in che modo poter fare la nostra parte. Innanzitutto si dovrebbero stabilire dei limiti di pesca , ma andrebbero rivisti anche i consumi personali. Cominciamo ad essere più consapevoli di ciò che mettiamo nei nostri piatti e nelle ciotole dei nostri animali.
Quanti sapevano ad esempio che Mars non produce solo le famose barrette al cioccolato ma anche cibo per gatti dei noti marchi Whiskas, Sheba e Kitekat? E che probabilmente il tonno contenuto nelle scatolette è frutto di terribili maltrattamenti?
Purtroppo la filiera non è facilmente tracciabile. Per maggiore trasparenza Greenpeace ha chiesto all’azienda di rendere pubblica la provenienza dei prodotti Whiskas. Mars ha risposto senza dare grandi delucidazioni; ha ammesso di rifornirsi sì dalla Tailandia, ma rimane oscuro quanto sia in qualche modo legata a questa sporca filiera. Nessuna informazione sui prodotti commercializzati in Italia.
GreenPeace non demorde, chiedendo a tutti di essere sostenuti tramite la camapagna Chiedi con noi a Mars cosa finisce nel suo Whiskas. Credo che neanche i nostri gatti sarebbero contenti di mangiare cibo che sa di sfruttamento e illegalità. E menomale che thai significa libero.
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