Stacanovisti o troppo dipendenti? Quando il lavoro intossica
In un paese dove la disoccupazione è alta, parlare di dipendenza è provocatorio.
Penso in particolare ai miei amici avvocati e commercialisti. Quando organizziamo serate di svago, non ci sono quasi mai, sempre impegnati con il lavoro. Non limitarsi alle ore previste, rientrare a casa senza staccare il cervello e continuare l’attività può diventare un problema, non solo per la salute personale ma anche relazionale.
Basta osservare gli occhi di chi conduce una vita del genere per rendersi conto che qualcosa non va. Eppure, perdere le amicizie e rischiare di rimanere soli è un dilemma che l’interessato ignora. Forse perché non comprende che il problema, quando sussiste, parte da sè stessi.
Sintomi
Quel che si nota è la tendenza a voler dimostrare di essere migliori di altri, elemento che piano piano entra a farparte di un carattere difficile cambiare. Oppure, cercare di essere riconosciuti dal proprio capo. Ho amici che continuano a dirmi : «Lavoro più del dovuto perché voglio farmi notare».
Non solo è un’utopia ma il più delle volte la tendenza a strafare diventa abitudine dura a morire. Questi due sintomi sono sufficienti a creare uno status sociale dove si cerca di produrre di più, allearsi con colleghi più potenti e darsi un tono maggiore. Come se in base alla quantità di lavoro svolto si diventi persone migliori.
Quando mi sono trovato ad ascoltare tante argomentazioni del genere, ero sempre terrorizzato. Un amico avvocato, per esempio, sosteneva di fare il lavoro più bello e difficile del mondo e essere più intelligente e importante di altri.
Ulteriore motivazione a sovraccaricarsi di lavoro era: «Lavoro tanto per non pensare ai problemi». È lo stesso identico processo mentale del “bevo per dimenticare”. Producendo più del dovuto si incorre in un eccessivo sforzo che però nello stesso tempo regala gratificazione al soggetto. I problemi si amplificano, così come la finta soddisfazione da troppo lavoro è in realtà nociva. Solitudine, irritabilità, tensioni famigliari e amorose, sono solo alcune situazioni sgradevoli che non mancheranno.
L’amico ritrovato
È bastato un licenziamento per far luce sul problema, e tornare a passare belle serate in compagnia. Quando, ironicamente, all’amico avvocato è stato chiesto: «Che ci fai qui?» ha risposto che lavorare in quel modo era diventato un problema e ci chiedeva scusa. L’abbiamo trovato diverso dal solito e ci ha confessato di essere stato in terapia e aver imparato la lezione:
«Ero convinto di valere in base al quantitativo di lavoro che svolgevo. Non cessavo mai, nemmeno da casa. Non mi limitavo alle ore di contratto perché ero convinto mi aiutasse a sentirmi una persona migliore. Avevo smesso di fare sport, mi ero lasciato con la ragazza. Per fortuna mi hanno licenziato. La testa è più leggera e sono uscito dall’egoismo. Dopo domani inizio un lavoro da un’altra parte, sarò serio ma nello stesso tempo mi ritaglierò tempo per lo svago. Lavorerò quando mi si chiede di lavorare ma quel che conta, è star bene, staccare lavoro-vita privata e mantenere i buoni rapporti. La sete di denaro e successo portano a privazioni personali e ansie che non desidero più avere».
Non c’è stato alcun tipo di discussione, abbiamo sorriso e dato pacche sulle spalle. Altre birre e frivolezza per tutta la sera. In quel contesto guardando l’amico ritrovato ho scoperto che il lavoro può diventare una dipendenza. E come ogni disturbo, ha dei sintomi. Ovviamente è un problema di cui si parla poco, e che va ben distinto dal sovraccarico imposto da un datore di lavoro, ma è ad ogni modo una status che è meglio evitare per tempo.
La psicologia ne parla chiaro: parte tutto da lacune personali e il problema ha una sua sintomatologia. Ma a raccontarcelo nei dettagli, per ora, è stata un’esperienza di vita.