Startup: se il team azzecca il mercato di riferimento è (quasi) a metà dell’opera
Tecnologia e innovazione sono oggi due fattori necessari – ma non sempre sufficienti – per fare impresa
“Vestire” la propria idea da startup rappresenta quindi una tentazione pressoché irresistibile, per quanti sono in cerca di sponsor e investitori.
Non sempre la “domanda” di qualità espressa da questi ultimi viene adeguatamente soddisfatta da chi si presenta come startupper. Abbiamo perciò chiesto a Claudio Rossi, imprenditore specializzato nel settore digitale e business angel, di spiegare quali sono i valori aggiunti effettivamente in grado di far spiccare un’impresa innovativa sulle concorrenti.
Come sceglie su quali startup puntare? Quanto “pesa” l’idea proposta e quanto il team che c’è dietro?
Posso dire che l’idea non rappresenta il criterio cruciale, anzi, tendenzialmente conta poco. Il fattore chiave è piuttosto il team e la sua composizione; i co-founder devono presentare caratteristiche eterogenee ed offrire un alto grado di flessibilità. Reagire in modo tempestivo ed efficiente ai mutati scenari di mercato è fondamentale.
Un ruolo significativo riveste anche il problema che il team affronta e tenta di risolvere. Perciò, se l’esigenza da soddisfare è ampia, variegata e ha carattere strutturale, la startup gode di un valore aggiunto. Difatti, mentre il prodotto da commercializzare sicuramente subirà modifiche (anche considerevoli) nel corso del tempo, il problema di fondo dovrebbe permanere.
Per quanto riguarda il prodotto/servizio da immettere sul mercato, il principio di cui tener conto è il minimum viable product (MVP). Tale metodo, introdotto da Frank Robinson e sviluppato da Steve Blank ed Eric Ries, prevede che il prodotto commercializzato in prima battuta sia un prototipo il più basico e semplice possibile. Seguirà un percorso di “raffinazione” ed evoluzione guidato dai feedback e dalle esperienze dei clienti.
Quali sono le caratteristiche ideali del team?
Una composizione equilibrata dovrebbe includere co-founder provenienti dal settore tech e altri con un background economico. In entrambe i casi l’esperienza ”sul campo” pesa certamente di più del semplice titolo di studi. Le ragioni sono sotto gli occhi di tutti: le case history di maggior successo non hanno a che fare con la conclusione di un percorso accademico.
Come si approccerebbe a gruppo di nerd che, pur avendo individuato un mercato redditizio non ha idea di cosa sia un business plan?
Scenari del genere sono abbastanza frequenti, e quando si verificano consiglio al team di cercare rinforzi, orientandosi verso ulteriori co-founder che abbiano caratteristiche complementari. Spesso le occasioni propedeutiche all’incontro e a un’eventuale collaborazione si creano nell’ambito della formazione. In tal senso Peekaboo, con il suo Lean Startup Programm è sicuramente un punto di riferimento.
Ci indica una startup da tenere d’occhio?
Credo che sia emblematico l’esempio di Elaisian, che monitora lo stato di salute degli alberi di ulivo tramite un algoritmo agronomico.
La startup si occupa di prevenire l’insorgere di malattie che non solo ridurrebbero consistentemente la quantità di olio prodotto e comprometterebbero l’esistenza stessa della piante, ma comporterebbero anche lo spreco di un notevole quantitativo di risorse idriche.
Elaisian rileva tramite software eventuali anomalie dell’uliveto, incrociando le informazioni convogliate dal satellite con le serie storiche. L’efficacia del metodo è stata dimostrata da alcuni test cui ha preso parte anche il marchio Monini, leader di settore. Così è emerso che l’impiego di questo algoritmo agronomico aumenta fino al 25% la produzione di olio e praticamente dimezza l’insorgere di malattie nella pianta.
La case history Elaisian è particolarmente interessante anche in considerazione del fatto che, in linea di massima, il comparto agricolo non è al passo con gli sviluppi tecnologici. La startup ha quindi messo a punto un sistema di comunicazione calibrato in relazione al proprio interlocutore.
Così, il flusso di informazioni viene smistato tramite sms o attraverso una dashboard (in italiano cruscotto, indica un dispositivo interattivo per la visualizzazione di dati), a seconda del grado di familiarità dell’agricoltore con la tecnologia.
Quanto incide il fattore geografico sul “decollo” della startup?
Dal punto di vista delle risorse pubbliche, in realtà, chi si trova al Sud ha più possibilità. Il problema, però, è che, per entrare in contatto con un “ecosistema” stimolante per il progetto, è necessario frequentare i centri in cui succedono le cose, e quindi metropoli come Roma e Milano.
Detto ciò, va sottolineato che anche al Sud, in città quali Bari e Matera, ad esempio, si sono acceleratori o eventi importanti per le startup. Se si vogliono coinvolgere anche investitori privati è comunque importante muoversi, ed essere pronti ad andare a cercare in contesti di più ampio respiro.
Dunque non parlerei di una preclusione verso le startup nate al Sud, a patto che il team si dimostri, anche letteralmente, dinamico.
Peraltro, se è vero che in metropoli quali Roma e Milano sicuramente c’è più probabilità di far accadere le cose, bisogna tener conto che presidiarle stabilmente implica alti costi. Perciò l’ideale, nel caso di una startup nata al Sud, sarebbe spostarsi in un grande centro per intercettare investitori e/o potenziali ulteriori co-founder, mantenendo ferma, proprio in senso geografico, la base.
Un esempio rivelatosi nel tempo vincente? Quello di Mosaicoon, la startup che, in un invidiabile scenario quale quello di Isola delle Femmine (Palermo), idea, realizza e distribuisce campagne pubblicitarie online.