Nutrirsi per vivere o vivere per nutrirsi?
Il genere umano è curioso. Il suo rapporto con il cibo oscilla perennemente tra questi due estremi, alternando momenti ed epoche storiche, in cui l’alimentazione aveva solo il fine di garantire energie sufficienti a produrre (secondo dopoguerra), ed altre, più recenti, in cui un piatto di carbonara (o un panino con hamburger e patatine, a seconda dei punti di vista) hanno rappresentato irrinunciabile coperta di Linus.
Cibo e benessere (psico) fisico: “riempire il vuoto” non è la soluzione
Trascurato fino al punto da essere ignorato, o fonte di ossessione, come solo sa essere il riempitivo posticcio di una voragine di altra natura. Ne deriva un rigetto dalle molteplici – dannose – conseguenze. L’integrità del nostro corpo viene messa gravemente a rischio, sia in caso di trapianto d’organi non compatibili, che quando ci ingozziamo di pizzette e biscotti perché ci sentiamo soli.
L’elemento che accomuna i due estremi del nostro rapporto con il cibo è l’incapacità di stare nel presente, facendoci travolgere/monopolizzare dall’ansia di prestazione, dalle ruminazioni mentali sul passato, o dal tentativo illusorio di controllare/prevedere il futuro. In quest’ottica, la mindful eating (alimentazione consapevole) rappresenta uno strumento prezioso, la vera e propria chiave di volta per riequilibrare i piatti della bilancia: nutrirci in modo gratificante senza che la nostra giornata ruoti intorno al pensiero della prossima cosa che mangeremo. (Il gioco di parole è stato involontario).
Cos’è la mindful eating
L’espressione indica un atteggiamento verso il cibo improntato alla presenza a se stessi ed all’ascolto dei messaggi (fame, sazietà…) che provengono dal nostro corpo, per decidere – finalmente – in modo ragionato ed autonomo cosa, come e quanto è meglio mangiare.
La mindful eating, infatti, non ha la pretesa di scegliere per noi, né di imporci regole ferree nei confronti di carboidrati, proteine o grassi. In ciò si distacca nettamente dalle diete che periodicamente diventano di moda promettendo miracolosi (talvolta irreali, e di sicuro rischiosissimi) dimagrimenti-lampo. Questo metodo è “figlio naturale” della meditazione mindfulness ideata da Jon Kabat – Zinn (ne abbiamo parlato qui).
Mindful eating: c’è fame e fame
Il primo passo da fare è riconoscere che la molla che ci spinge ad avvicinarci al cibo NON è sempre la stessa, NON ha un’unica matrice.
Non importa che, superficialmente, ci sembri che mangiamo solo perché è lo stomaco a chiedercelo; basta grattare un po’ la superficie delle nostre sensazioni, per renderci conto che il nostro rapporto con il cibo è (sovrac)caricato da emozioni, ricordi, condizionamenti sociali.
Così, di volta in volta, a dire l’ultima parola quando decidiamo di addentare un supplì o un bombolone alla crema, può trattarsi di fame degli occhi, del naso, delle orecchie, del tatto. Oppure di fame cellulare, dello stomaco, o di fame del cuore o della mente. Ebbene sì: esistono sette tipi di fame.
Re-imparare a mangiare
Praticare la mindful eating rivoluziona non solo il modo in cui agiamo il cibo, ma, ancor prima, il modo in cui questo sollecita la nostra mente.
Alimentarsi consapevolmente significa infatti smetterla di avventarsi sulla scatola di cioccolatini, e gustarli, ancor prima che con la bocca, con gli occhi, con il tatto (la loro superficie è liscia e regolare? che consistenza ha la carta che li ricopre?), con l’olfatto…
Significa prestare attenzione a come mangiamo: ci ritagliamo del tempo solo per questa attività, o nel frattempo stiamo attaccati allo schermo del cellulare o della tv?
…e da ultimo, ma non per importanza, mindful eating significa permettere al nostro corpo di decidere quando smettere di mangiare, rimettendoci umilmente al suo insindacabile giudizio: “posa quelle patatine. Sono pieno come un uovo”.
Quando le cose non mi divertono, mi ammalo (H.B.)
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