mentalità vincente

Allena il pensiero strategico ☝

Qual è la vera sfiga? Mangiar soli, o incollarsi al cellulare anche quando si è in compagnia?

Comunico quindi sono 

Grazie ai social essere perennemente connessi e informati su ciò che fanno gli amici è diventato un imperativo categorico.

Pensateci. I locali sono popolati da persone che preferiscono interagire con il proprio cellulare, anziché raccontare al fidanzato o agli amici seduti a pochi centimetri com’è andata la giornata. È capitato anche a me, però, dopo averci riflettuto, ho capito che, quando ero davvero interessata all’interlocutore, mi è sembrata una scortesia persino poggiare lo smartphone sul tavolo. I social ci spingono sempre più a mentalizzare l’interazione, facendo perdere per strada pezzi fondamentali della comunicazione. Vale a dire, tutto quello che ha a che fare con la fisicità e con il guardarsi negli occhi.

Stare da soli NON è una malattia

MangiareSoliFormicaArgentinaChe sia proprio questa smania (falsata) di contatto, questa sbornia che è al tempo stesso esibizionistica e voyeuristica, a creare un alone di pietà e commiserazione intorno a chi va a mangiare fuori anche quando è spaiato? Probabilmente questo approccio, a tratti inquisitore, a tratti discriminatorio, è influenzato dalla cultura retrostante.

Per mia fortuna anche durante viaggi solitari al sud Italia, che nella vulgata comune viene considerato depositario di una mentalità conservatrice e tradizionalista, nessuno mi ha mai trattata con sufficienza, fastidio o malcelato disprezzo, quando andavo a mangiare la pizza o fare colazione. Tuttavia ho sentito amici raccontare che, in situazioni analoghe e nel profondo nord, hanno subito un pressing imbarazzante, finchè non hanno liberato il tavolo per far spazio a coppie o gruppi.

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…e in nord Europa lo sanno

MangiareSoliFormicaArgentinaFuori dai confini nazionali l’atteggiamento nei confronti di chi decide di ritagliarsi un momento tutto suo in un luogo pubblico è assai diverso. In Germania, ad esempio, ho sperimentato spesso il divertimento misto a imbarazzo determinato dallo stare seduta su una lunga tavolata circondata da estranei. Una città come Colonia mi ha regalato ricordi impagabili in tal senso, perché, complice la naturale goliardia locale, si sono innescate conversazioni buffe e stimolanti.

Andare a mangiare da soli in un locale può scaturire dal bisogno di coccolarsi un po’: magari abbiamo raggiunto un traguardo importante, vogliamo festeggiare, ma non c’è nessuno con cui condividere la bella notizia. D’altro canto può essere una scelta obbligata, quando andiamo di fretta perché abbiamo un appuntamento a cavallo con l’ora di pranzo, e quindi lo spirito non è necessariamente dei migliori. In entrambi i casi dovremmo sfruttare l’occasione per concentrarci sui nostri bisogni e riscoprire lo stupore con cui da bambini guardavamo la realtà circostante.

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Andare a mangiare da soli sollecita quasi automaticamente la propensione verso l’altro, e forse è proprio questo a rendere divertenti le conversazioni con perfetti sconosciuti. Sono occasioni che ci permettono di esplorare argomenti fuori dalla nostra quotidianità, confrontandoci con umanità che magari non sceglieremmo come amiche, ma le cui esperienze possono rivelarsi istruttive.

Non è un caso, perciò, che nei Paesi del Nord Europa stia diventando una vera e propria tendenza quella di allestire lunghi tavoli nei locali, così da favorire la socializzazione estemporanea e la chiacchierata random. Fortunatamente anche in Italia comincia a succedere qualcosa del genere.

Perciò, la prossima volta che qualcuno tenterà di farvi sentire degli alieni perché coltivate con tenacia il sottile piacere di andare a mangiare da soli, sfoderate il vostro miglior sorriso, e compatitelo. La sua grettezza mentale gli impedisce di immaginare quello che si perde. Dulcis in fundo, rispondetegli: “potrebbe andar peggio: lo smartphone potrebbe essere un’estensione del mio corpo”.

 

Francesca Garrisi   

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 
 

 

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Autismo: l’amore e la libertà spezzano la tirannia della malattia

Lo confesso: sono un'ipocondriaca pentita

Pur non essendo mai stata– fortunatamente – tra quanti svengono semplicemente alla vista di un ago, ammetto che, per un breve periodo della mia vita, ho frequentato regolarmente guardie mediche e pronto soccorso della zona in cui abitavo. 

A distanza di tempo

IpocondriaFormicaArgentinae dopo aver capito che per condurre una vita degna di essere chiamata tale dovevo necessariamente confrontarmi con questa scomoda parte di me, e imparare a conviverci/gestirla, ho realizzato che, forse quello che mi terrorizzava davvero non era (sol)tanto l’idea di poter sviluppare, un giorno, una qualche patologia incurabile e mortale.

Io sono la mia malattia (?)

Probabilmente, a tenermi in scacco era il pensiero, ruminato in modo sotterraneo e quindi subdolo, che, se fossi stata vittima di un tumore o dell’AIDS, io sarei diventata la malattia. La totalità del mio essere sarebbe stata risucchiata da questo buco nero. Le passioni, il lavoro e le relazioni sarebbe state spazzate via. 

Non ci sarebbe più stato spazio per nulla che avesse a che fare con la vita: le mie giornate sarebbero state scandite da analisi, pellegrinaggi in ospedale e il tempo trascorso a casa, vuoto e interminabile.

 

"Colpa" dei miei genitori?

IpocondriaFormicaArgentinaIl timore inconscio che l’insorgere della malattia potesse un giorno rendere irriconoscibile Francesca (fisicamente e non solo) derivava dai racconti dei miei genitori. 

Entrambi negli anni Ottanta hanno lavorato come infermieri nei famigerati ospedali psichiatrici (Opis), e così sono spesso stati testimoni inconsapevoli di situazioni in cui la dignità di essere umano dei pazienti veniva pressoché azzerata. 

Il luogo che avrebbe dovuto dar loro riparo, conforto e sollievo diventava lager e carcere; il reato da scontare, non voluto né praticato, il disagio mentale

Ancora oggi mi capita di ripensare alla compagna di scuola che mia madre ritrovò in Opis

La bellezza, l’intelligenza e la vivacità dell’adolescenza stuprate dalla camicia di forza, il pudore di un tempo insozzato dagli escrementi da cui non poteva ripulirsi.

Così, mi hanno colpita alcuni articoli letti recentemente

Storie di ragazzi autistici, giovani uomini di età compresa tra 18 e 20 anni che stanno costruendo una vita piena e intensa, trovando nella quotidianità fatta di azioni, impegni lavorativi ed hobby il proprio senso e identità

Tutto questo grazie all’amore caparbio di genitori che hanno deciso, sin da subito, che la malattia non si sarebbe trasformata in una cella buia e soffocante. 

Cura e dedizione non sono sfociate in timori e apprensione, ma sono state convogliate nel raggiungimento di uno scopo ben preciso: dare al proprio figlio gli strumenti per raggiungere l’autonomia.

L’autismo

è un disturbo caratterizzato da notevole eterogeneità e sulle cui cause ancora non ci sono informazioni chiare e univoche. 

Il termine che si usa per descrivere di volta in volta le sue manifestazioni pratiche, in termini quantitativi e qualitativi, è spettro

Il minimo comun denominatore condiviso da chi ne è affetto è rappresentato da tre sintomi: ridotte abilità sociali e comunicative e comportamenti stereotipati. A questi tratti possono associarsi varie forme di disabilità intellettiva o instabilità motoria e attentiva.

Uno dei punti più critici con cui devono confrontarsi i genitori di persone autistiche è rappresentato dal fatto che il sostegno da parte di istituzioni e strutture viene meno in corrispondenza del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Il più delle volte le famiglie devono farsi interamente carico della situazione, pur non avendo strumenti e competenze necessarie, ma trascorrere le giornate in casa senza la possibilità di confrontarsi con i propri coetanei non è certamente d’aiuto.

Lo scenario peggiore è quello in cui l’adulto autistico viene costretto ad assumere farmaci non efficaci , magari dopo esser stato ricoverato in strutture altrettanto inadatte. Così, il genitore si pone una domanda che fa tremare i polsi: che ne sarà di lui dopo che io non ci sarò più?  Padri e madri che lottano ogni giorno per sfuggire alla tirannia della malattia, insegnando con i gesti cos’è l’indipendenza e come ottenerla, sono eroi silenziosi.

Dare la vita una volta attiene alla biologia, rinnovarla salvando dal baratro la dignità umana è altra cosa, e richiede una soglia di sopportazione del dolore quasi sovrannaturale

 

Francesca Garrisi   

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

 

 

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Non esistono supereroi. Davanti alla malattia siamo forti ma fragili

Il confine tra opinione e religione è fondamentale ma spesso sottile e permeabile

Condividere il proprio punto di vista e/o la propria esperienza di vita con gli altri è un diritto sacrosanto, un’esigenza legittima. Raccontarsi è utile sia per chi lo fa che per chi ascolta, ma solo tenendo sempre presente che una porzione di realtà non esaurisce il tutto.

Il vissuto di una persona è per definizione soggettivo, dunque le riflessioni che ne scaturiscono sono inevitabilmente relative. Proporle con i toni di un dogma e con l’ottusa convinzione tipica dei fondamentalismi può rivelarsi non solo inquietante, ma anche pericoloso. Specialmente se a proporsi a maestro di vita è un personaggio pubblico. In tal caso, infatti, il rischio di legittimare messaggi slegati dalla realtà è più che tangibile.

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Combattività Vs positività tossica

MalattiaPositivitàTossicaFormicaArgentinaEssere propositivi, allenarsi a trovare stimoli e frammenti di gioia anche nei momenti difficili è fondamentale per vivere appieno la quotidianità, ma non mette al riparo da qualcosa che è connaturato con l’esistenza stessa. L’ottimismo non ci rende immuni dalla malattia e dalla morte, per quanto questa considerazione possa toglierci il fiato (parola di ipocondriaca).

Partiamo da un presupposto: impedire al cancro di monopolizzare energie e pensieri continuando a lavorare e coltivare rapporti interpersonali è fondamentale per non identificarsi con la malattia. Tuttavia, definirla un dono, o una benedizione, come spesso fanno personaggi pubblici e influencer, è quantomeno azzardato, perché propone una scivolosa equivalenza tra la loro personale esperienza e quello di migliaia di malati e delle loro famiglie.

Il fatto che nel loro specifico caso il cancro abbia portato momenti e sensazioni positive non può oscurare l’altra faccia della malattia. Quella che aggredisce fulminea, famelica e rabbiosa, strappando a morsi giorni e speranze.

Definire i tumori “tutti uguali” e dichiarare che per lottare contro di essi è sufficiente l’ottimismo rischia di svilire il dolore e la memoria di chi ha avuto una sorte diversa.

I tumori non sono tutti uguali, e profonde disparità esistono purtroppo anche nell’accesso alle cure. Rivolgersi a chi ha affrontato o sta affrontando un’esperienza del genere esordendo con un oggi vi spiego come rischia di suonare quasi beffardo. E apre la strada a una banalizzazione che può rivelarsi dannosa.

PositivitàTossicaFormicaArgentinaCombattere il cancro è qualcosa di incredibilmente più complesso che installare sul pc l’ultima versione di Firefox. Non esistono i tutorial in stile Aranzulla, quando c’è in gioco la vita. A volte convincersi del contrario può dare un conforto effimero, ma la verità è che non esiste detergente in grado di lavare via interamente e per sempre le angosce che accompagnano l’esistenza.

Il libero arbitrio è un dono, ma ha dei limiti che dobbiamo accettare, e che spesso passano per il nostro corpo. Ogni malattia porta con sé un margine di fragilità che non possiamo né quantificare né cancellare. Prenderne coscienza è un gesto d’amore, forse il più difficile, che dobbiamo a noi stessi.

 

 

Francesca Garrisi

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 
 
 


 

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