La prima domenica sera settembrina.
Ferie finite, tempo nuvoloso tendente alla pioggia, il morale assimilabile alla gioia di vivere di una raccolta gold di James Blunt. Devo fare qualcosa, qualsiasi cosa, affinchè la nube del pessimismo cosmico non mi inghiotta.
Così opto per il cineforum di un amico, relativamente vicino casa. “ Non dovrò nemmeno fare troppa strada al ritorno” penso, stoltamente.
Roma non ha tardato a darmi il suo speciale benvenuto. Terminata la proiezione del film (che peraltro ti regalava una visione molto rassicurante della vita notturna) mi accingo a tornare a casa. Google Maps mi informa che il percorso per ritrovare nuovamente la sicurezza delle quattro mura casalinghe sono previsti circa quaranta minuti, un tram e due autobus. "Bene" mi rincuoro "rispetto alla solita media di un’ora e mezza..."
Prima fermata, intravedo il 5 all’orizzonte.
Fino a qui tutto bene. Il Dio Atac mi ha preso a ben volere. Forse ha capito che, almeno dopo le vacanze, un po’ di clemenza è dovuta.
Primo step superato egregiamente. Giunta alla seconda tappa, ecco arrivare anche il primo dei due autobus. Praticamente un miracolo. Secondo test superato a pieni voti, mentre già penso di accendere un cero a San Cristoforo, protettore degli autisti.
Tuttavia, mai cantare vittoria prima di aver raggiunto l’obiettivo. La legge della sfiga universale è sempre dietro l’angolo, annusando l’arrivo di una gioia e neutralizzandolo sul nascere. Piena di ottimismo attendo il terzo mezzo, ormai certa che la fortuna stasera sia dalla mia parte. Tempo di attesa secondo l’app di Atac: cinque minuti.
Realtà? Sessanta minuti.
Attorno a me una densa oscurità, macchine che rallentano, nemmeno le cicale a farmi compagnia. Mezz’ora dopo comincio a valutare quale delle situazioni appena viste nel film possa accadermi per prima. Stupratore o ladro?(generalmente, non sono una persona ansiosa).
A un tratto eccolo: l’autobus che aspettavo. Peccato che stia andando nell’altra direzione. Il Dio del Mezzo Pubblico deve essere impegnato in un’altra conversazione. Secondo i miei calcoli, se il bus è passato dal lato opposto, non dovrei aspettare molto prima che arrivi a salvarmi. Povera stolta per la seconda volta. Passa un’altra mezz’ora e solo a quel punto decido che forse è meglio chiamare un taxi, dal momento che nel frattempo è scoccata la mezzanotte e mezza.
Una musichetta gioviale che, nella situazione attuale, suona come la colonna sonora di Profondo Rosso. «Siete in linea col servizio Taxi Roma. Vi ricordiamo che sui nostri taxi è possibile pagare con carta di credito…» La tiritera continua per circa dieci minuti di attesa in linea. Vedo un autobus all’orizzonte. Non è il mio. Chiedo delucidazioni all’autista e fa spallucce. Non è un problema suo.
Richiamo il servizio taxi e mi risponde di nuovo l’irritante voce della signorina. Rido tantissimo fingendo di star parlando con una persona fidata. D’improvviso la luce in fondo al tunnel. Eccolo, il famigerato 309. Mi butto in mezzo alla strada nel tentativo di fermarlo e finalmente salto su.
Vi chiederete perché questa lunga e e noiosa filippica. Perché poi ci si stupisce se accadono i fattacci. Perché le ragazze non si sentono sicure a uscire la sera non accompagnate. E non perché portino una minigonna o un trucco particolarmente vistoso. Perché il ritardo di un autobus si aggiunge a quello di un taxi, che costa sempre troppo. E, converrete con me, in una zona in cui non c’è un bar aperto e che sembra il set di un thriller non è esattamente il massimo.
Sarò utopica nel chiedere minori disservizi o iniziative di prevenzione? L’unico progetto presentato a riguardo è Taxi Rosa, corse dall’una alle cinque del mattino esclusivamente dedicate alle donne, al costo di cinque euro l’una. Le auto tutte al femminile hanno comunque ricevuto pochissima pubblicità e, nate per ridurre i tempi d’attesa, pare arrivino con le stesse tempistiche dei taxi normali. Per non parlare del fatto che dalle 23 a 00.30 sono ca…voli tuoi.
A questo punto, mi aspetto quantomeno corsi di autodifesa per tutte, pagati dalla Regione Lazio. O una dotazione annuale gratuita di spray al pepe.
di Irene Caltabiano
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