We are Social. Be social ☮

Perché film e serie tv sono sempre ambientati nelle grandi città?

Stessa storia, stesso posto, stesso bar.

Friends, Sex and the City, Will & Grace, Ally McBeal, I liceali e I Cesaroni sono solo alcune delle serie tv che hanno riscosso maggior successo nel nostro paese. Per quanto diverse nella trama, hanno tuttavia un denominatore comune: sono ambientate nelle principali città dei rispettivi paesi di produzione.

La cosa non cambia poi molto quando ci spostiamo dal piccolo al grande schermo. Anche Hollywood e Cinecittà, senza trascurare gli omologhi inglesi e francesi, sono solite narrare storie il cui intreccio si svolge a New York, Los Angeles, San Francisco, Londra, Parigi, Roma e Milano.

Ovviamente esistono delle eccezioni. Tra le serie tv italiane più recenti abbiamo Don Matteo, L’ispettore Coliandro e Il commissario Montalbano, ambientate rispettivamente a Gubbio (e poi Spoleto), Bologna e nella cittadina immaginaria di Vigata. Per quel che concerne i prodotti a stelle e strisce, invece, spicca su tutte l’amatissima serie Happy Days, che racconta le vicende della famiglia Cunningham in quel di Milwaukee.

 

Il punto è questo: perché scegliere sempre i soliti teatri, per girare le scene? Non sarebbe bello sfruttare il mezzo televisivo o cinematografico per far conoscere al mondo realtà meno blasonate ma non per questo meno interessanti?

Quando le sceneggiature alimentano lo stereotipo.

La monotonia degli autori è senz’altro comprensibile quando si tratta di temi polizieschi, poiché omicidi e fatti di cronaca nera sono fatalmente più frequenti nelle grandi metropoli.

Per quanto la signora Jessica Fletcher ci abbia dimostrato che la piccola Cabot Cove è il luogo più pericoloso del mondo, non c’è verso di ambientare serie come The Mentalist, Lie to Me o Colombo in luoghi di provincia. Non sarebbero credibili e, di conseguenza, non funzionerebbero.

Il tutto diventa però stucchevole nel momento in cui si procede per stereotipi. Perché ok, se l’intenzione è quella di scrivere Gomorra, per forza di cose la location sarà Napoli e non Innsbruck. Ma per quale motivo “servirsi” del capoluogo campano solo quando si vuol parlare di camorra? Idem dicasi per la Sicilia intera e le storie di mafia.

Perché non si può ambientare una trama stile Sex and the City a Palermo? Anche da quelle parti ci sarà una movida e, verosimilmente, donne che hanno una vita sessuale piuttosto agitata.

E che dire di una storia alla Ally McBeal? A Catania, Messina o Reggio Calabria dovrà pur esserci almeno una donna avvocato che tra una causa e l’altra va alla ricerca del fidanzato perfetto.

Lo stesso discorso vale per città come Piacenza, La Spezia, Vicenza, Pistoia, Ancona o Teramo, tanto per citare un campione casuale di città di cui sappiamo poco o niente. Se vogliamo accostare la parola “cultura” a cinema e televisione, forse è bene che cominciamo a considerare anche questo aspetto.

Le sopracitate eccezioni confermano che la cosa non solo funziona ma può dare risultati addirittura superiori alle aspettative. Questo perché, a prescindere dall’interesse suscitato da un luogo semisconosciuto, quel che alla fine fa la differenza sono la qualità e l’originalità della storia.

Ecco perché è importante uscire dai soliti schemi e veicolare la conoscenza. Nessuno di noi, probabilmente, saprebbe dove si trova Brescello e quali sono le sue caratteristiche principali, se là non avessero ambientato la saga di Don Camillo e Peppone.

Analogo discorso per Radiofreccia, il film capolavoro di Luciano Ligabue che ci ha fatto conoscere qualcosa in più della provincia di Reggio Emilia. Una storia meravigliosa che ha ottenuto diversi premi e un importante riconoscimento internazionale, venendo proiettata al MoMA di New York.

A pensar male si fa peccato, ma spesso ci s’indovina.

Magari gli sceneggiatori potrebbero giustificarsi adducendo la tipica motivazione del budget limitato, che il più delle volte costringe a ripiegare sulle solite location. I produttori, invece, dal canto loro potrebbero sostenere che le città con maggiore appeal garantiscono incassi superiori.

Fatto sta che cinema e tv stanno inflazionando culturalmente città come Roma e Milano (di cui ormai conosciamo anche gli anfratti più nascosti) e desertificando tutto il resto. In questo modo le due grandi metropoli vengono mitizzate e diventano il punto di arrivo di milioni di italiani.

Lo spirito di emulazione porta molte persone, specie i più giovani, a trasferirsi. Il risultato è il sovrappopolamento: le opportunità diminuiscono per tutti e la qualità della vita anche, mentre intanto i piccoli centri si svuotano. Ciò costituisce un enorme e ingiustificato spreco di ricchezza, sotto ogni punto di vista.

E se l’unico vero grande problema fosse nella vena creativa della lobby degli sceneggiatori? Del resto, se la fantasia scarseggia non resta che appoggiarsi alla bellezza e alla fama della location.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 
Continua...

L' evoluzione inciampa? No, nasce l'homo cellularis

«Ostacolo superato».

smartphone-1«Puoi continuare a leggere il messaggio. Attenzione, un sasso alla tua sinistra, aggiralo. Pedone a 100 metri, spostati sulla destra. Fermati, il semaforo è rosso».

Occhi puntati sullo schermo, auricolari alle orecchie o sguardo sul navigatore. Ogni volta che cammino per strada immagino un futuro non troppo lontano in cui ciascuno avrà un Tom-tom salva-vita per evitare incidenti o pali in faccia.

Ormai ci siamo dimenticati cosa significhi guardarci negli occhi a discapito dei lucenti pixel di uno smartphone. E se Marshall McLuhan, sociologo celebre per aver analizzato gli effetti dei mezzi di comunicazione sulla società, già negli anni '80 affermava :

-"La mia definizione dei media è molto estesa; include ogni tecnologia che crea estensioni del corpo e dei sensi umani, dai vestiti al computer"-

direi proprio che le sue teorie sono risultate profetiche. Tuttavia non nel modo in cui ipotizzava.

smartphone-2In realtà, al contrario di quanto diceva il caro Marshall, pare che sia il nostro corpo che si sta adattando ai device tecnologici. Una ricerca pubblicata su Plos one, giornale di divulgazione scientifica, evidenzia come gli smartphone abbiano modificato, istintivamente, il nostro modo di camminare.

Quando li usiamo siamo infatti sempre meno concentrati a guardare cosa c'è per terra e risultiamo portati a sollevare il piede guida più in alto e più lentamente. Risultato? Il nostro andamento appare sbilenco, come fossimo leggermente brilli.

Lo studio è stato realizzato  dall'Anglia Ruskin University su ventuno persone, messe di fronte ad ostacoli di altezza simile con tracciatori oculari e sensori di analisi di movimento. Sono stati così esaminati separatamente 252 scenari, in cui gli individui coinvolti leggevano messaggi mentre camminavano. Ne è emerso che, se ci muoviamo con un cellulare in mano, tendiamo a guardare gli ostacoli fino al 61% di volte in meno. La ricerca ha evidenziato inoltre che il piede guida era più alto del 18% e più lento del 40%.

In futuro dunque adatteremo il nostro stile di camminata procedendo lentamente e con tratti molto pronunciati. Sarà il corpo stesso a sviluppare la sensibilità all'ostacolo.

Le corsie per smartphone-dipendenti

wall-eRicordate che in Wall-e, cartone animato della Pixar, si ipotizzava un futuro non troppo lontano in cui l'uomo passava la sua vita di fronte a uno schermo, trasportato da sedie volanti, sempre più flaccido e grasso?

Non siamo ancora a quei livelli ma per quanto riguarda l'avere lo sguardo fisso su uno schermo pensate che in Cina, precisamente a Chongqing, esistono già corsie per chi cammina con il cellulare in mano. I tecno-dotati non solo risultano più lenti e ostacolano il flusso di traffico umano, ma devono essere pronti a prendersi il rischio di eventuali "scontri".

Non solo modificheremo la nostra camminata, ma pare che si trasformerà anche l'aspetto fisico. Occhi e orecchie più grandi, braccia più lunghe, busto più corto. Andrà a finire che diventeremo noi gli alieni che abbiamo sempre ipotizzato di incontrare.

irene

 

di Irene Caltabiano

 

 

google playSeguici anche su Google Edicola »

 

Continua...

Cosa spinge i giovani a imbrattare le città con lo spray?

Impara l’arte e… regalala al mondo.

street_artL’arte del Graffity Writing è nata a Philadelphia all’epoca dei Beatles ed è sbarcata in Italia una ventina d’anni dopo. “Deve essersela fatta a nuoto”, sostengono i più maliziosi, sottolineando come ogni nuova moda o tendenza approdi nel nostro paese con colpevole ritardo.

C’è poco da rammaricarsi, stavolta, considerando che nella maggior parte dei casi non si può parlare d’arte ma di vero e proprio vandalismo. Va fatto, a tal proposito, un netto distinguo tra la street art e il quotidiano imbrattamento di beni o spazi pubblici e privati.

Mentre nel primo caso parliamo di una sorta di movimento madonnaro 2.0, nell’altro si tratta di comuni fenomeni di delinquenza il cui fine è marcare il territorio e implorare un po’ d’attenzione.

Gli street artist, bontà loro, abbelliscono, impreziosiscono e addirittura rivitalizzano elementi urbani anonimi o degradati. Mettono il loro talento al servizio della collettività senza chiedere nulla in cambio, accontentandosi di un applauso e magari qualche obolo.

In Italia abbiamo due eccellenze, in questo campo. La più famosa è Alice Pasquini, un’artista che ha realizzato opere murarie in tutto il mondo ed è stata recensita da quotidiani del calibro dell’International New York Times. L’altro fiore all’occhiello è invece Andrea Gandini, un ventenne romano che gira per la città scolpendo i tronchi tagliati degli alberi.

Questi due esponenti della street art nostrana dimostrano come sia possibile coniugare l’arte col recupero del paesaggio e rappresentano senz’altro un modello da seguire e a cui ispirarsi. Là dove non intervengono governi e amministrazioni comunali, possono fiorire capolavori che danno lustro a quartieri spesso malfamati o comunque poco considerati.
 

 

Il rovescio della medaglia.

street_artCome spesso accade, tuttavia, il messaggio originale viene distorto, travisato. Il fatto che qualcuno, dipingendo un muro, abbia acquisito fama e notorietà, ha indotto una moltitudine di persone prive di talento artistico ad armarsi di spray o pennarello per ottenere visibilità.

L’obiettivo di questi ragazzi è imporre i propri pseudonimi all’interno dei contesti urbani. Nulla viene risparmiato: muri, saracinesche, segnali stradali, armadietti delle società elettriche o telefoniche, autobus, treni, metropolitane e chi più ne ha più ne metta. Qualsiasi superficie scrivibile, specie se pulita, diventa un richiamo più attraente di una gemma d’oro per una gazza ladra.

Spesso, come anticipato, si tratta di un modo per marcare il territorio. Come a dire “questa è zona nostra” oppure “qui siamo arrivati noi, per primi”. Ed è proprio qui che il gioco diventa pericoloso, perché assume i contorni della sfida. Non di rado ci si spinge oltre pur di raggiungere e griffare qualcosa di apparentemente inarrivabile o inespugnabile.

Può suonare paradossale ma imbrattare le città è una “missione” pericolosa, molto più del parkour (disciplina metropolitana che consiste nell’eseguire un percorso superando qualsiasi genere di ostacolo, adattando il proprio corpo all’ambiente circostante, ndr).

Non di rado si rischia l’osso del collo per arrampicarsi su un cavalcavia o all’interno di una galleria. Altrettanto di frequente, magari introducendosi in una proprietà privata, c’è il pericolo che qualche vigilante esploda colpi d’arma da fuoco confondendo i graffitari con dei malviventi che hanno intenzione di rubare.

loading...

Perché accade tutto questo?

street_artSono diverse le interpretazioni che psicologi e sociologi hanno dato al problema. Secondo alcuni studi, il fenomeno dei graffiti è legato alla mancanza di spazi pubblici, di verde, di giardini e luoghi d’incontro nelle città.

Nelle metropoli moderne, tutto è privatizzato e inaccessibile, dunque le scritte rappresentano una forma di rifiuto sociale, una specie di aggressione simbolica. Dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, invece, c’era abbondanza di spazi verdi in cui i ragazzi potevano incontrarsi, giocare e socializzare.

La cementificazione delle aree urbane, quindi, è percepita come una limitazione della libertà e spinge i giovani alla ribellione. Non potendo abbattere fisicamente le strutture, si pensa di violarle a suon di scarabocchi dai toni volgari e violenti. Una conferma di questa tesi viene direttamente dalla storia, ricordando cosa accadeva ai tempi del muro di Berlino.

Lo stesso discorso vale per tutti quei simboli universalmente riconosciuti come appartenenti al potere, alla globalizzazione e al capitalismo: ogni spazio “rubato” è buono per esprimere il proprio dissenso e chiedere implicitamente aiuto. In questo modo, infatti, le persone cercano di lasciare un segno della loro esistenza, poiché si sentono ignorate, inascoltate.

È evidente, dunque, che il problema non si risolve né con la repressione né col buonismo. Bisogna restituire ai giovani tutto ciò che negli ultimi decenni gli è stato tolto, affinché possano tornare a sentirsi parte di qualcosa. Nel momento in cui smetteranno di percepirsi come dei corpi estranei, dei soggetti indesiderati alienati da smartphone e PlayStation, probabilmente torneremo a vedere muri e metropolitane puliti.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

google playSeguici anche su Google Edicola »

 

Continua...

 

FB  youtubeinstagram

✉ Iscriviti alla newsletter


☝ Privacy policy    ✍ Lavora con noi

Contattaci