Un tempo, in dialetto milanese, significava signora. Da quando il capoluogo meneghino è diventato la città di apericena e milanesi imbruttiti, il vocabolo ha assunto una valenza diversa. La sciura è una specie urbana, una categoria che, se vivi da un po’ nella capitale della moda, imparerai a riconoscere.
Le sciure rimangono ancorate a quel tipo di upper class tradizionalista, che non ha ancora ceduto a eco-chic e moda sostenibile. Infatti le eccentriche dame dai sessant’anni in su mostrano orgogliose pellicce vere, fili di perle, cappotti pastello, occhiali da sole firmati e capello cotonato. Il tutto condito da sguardo fiero e portamento da settimana della moda. Insomma, quando Chiara Ferragni si chiamava ancora Diavoletta87, loro erano già icone di stile.
Queste eleganti apparizioni sono diventate un vero e proprio simbolo della Milano bene, tanto da meritare un account Instagram.
Loro fanno la moda
Sciuragram nasce dalla mente di Angelo, 24 anni, studente fuori sede che, arrivato nel capoluogo lombardo, non sapeva nemmeno chi fossero queste gentildonne. Quando ha imparato a conoscerle ne è nata un’adorazione mescolata ad invidia.
«L'idea del progetto, se così vogliamo chiamarlo, mi è venuta quando con un amico abbiamo iniziato a commentare l'eleganza di queste signore in giro per Milano, e quanto sarebbe stata bella e più semplice la vita se fossimo stati come loro invece che studenti universitari».
Dall’ammirazione da lontano il ragazzo è passato all’azione. E via di avvistamenti con didascalie calzanti e spassose. Le signore vengono paparazzate in qualsiasi situazione, dalla piscina alla passeggiata in centro, dalla spiaggia al caffè da Saint Ambroeus o i pasticcini da Cova, luoghi tipici della Milano-bene. Alcune anche tecno-dotate, con tanto di smartphone e cover sbrilluccicanti, osservano la vita dall’alto della loro eleganza, rifuggendo shorts e barbe hipster.
L’ironia travolgente ha portato al raggiungimento di 39, 8 mila followers. Perché, come recita il sottotitolo della pagina, loro fanno la moda. Da ancora prima che esistesse Instagram.
Stavo preparando un riso basmati con i gamberi al profumo di lime. Mentre la pentola borbottava sul fuoco, ad un tratto un flashback. Il mio primo risotto da fuori sede. Età: vent'anni. Una busta della Star di pappa liofilizzata e funghi secchi dalla dubbia provenienza.
All’epoca mi sembrava una prelibatezza, considerata la scarsa esperienza (fatta in prevalenza di osservazione e segreti rubati delle mani sapienti di mamma e nonna, che solo ogni tanto concedevano un’intrusione).
Oggi, ventotto anni, tanti risotti liofilizzati e piatti pronti dopo, sono capace di preparare una cena completa, dall’antipasto al dolce, facendo i giusti abbinamenti. Addirittura scegliendo il tipo di vino rosso o bianco in base al menu di carne o pesce.
Non vi sto raccontando tutto questo per una sorta di auto-elogio o perché mi paga Giallo Zafferano. Ve ne parlo perché in questo ultimo periodo mi è capitato spesso di sentirmi dire da romani doc: «Voi del Sud siete stati fortunati, avete avuto un motivo per spostarvi e andarvene di casa. Qui era inutile pagare un affitto in più…»
E così il risotto è diventato un simbolo, un pretesto per ripercorrere le tappe vissute fin qui. Quell’evoluzione dalla busta pronta alla scissione tra riso della qualità corretta, funghi freschi champignon e soffritto di cipolla, brodo o acqua a seconda se lo si voglia o meno rendere più digeribile, rappresenta lo sforzo all’adattamento, alla sopravvivenza, la fatica della crescita.
Mantecare
Sì, è vero:andar via di casa è bello, liberatorio, l’indipendenza coincide con la felicità nell’età in cui senti che il mondo è tuo, che potresti fare qualsiasi cosa se ti distacchi in maniera sana dal nido. Le stesse quattro mura che dai diciott'anni in poi diventano sempre più strette. Ma questo salto non è privo di impegno: ogni cosa che impari ha il suo prezzo.
Dopo il primo anno di università fuori sede ho imparato che il latte non si autorigenera grazie a qualche porta spazio-temporale all’interno del frigo. Che nessuna mamma ti scuoterà la mattina intimandoti di scendere dal letto se hai fatto le quattro del mattino; la sveglia diventerà (malvolentieri) tua amica fidata. Che dovrai affrontare gli sguardi sospettosi dei prof quando vedranno le tue occhiaie. Che la vita fra coinquilini si può rivelare l’esperienza più esaltante della tua vita ma anche il tuo peggiore incubo.
Dal secondo anno in poi comincerai a chiamare sempre meno “casa” la città da cui sei partito. Tornare per le vacanze di Pasqua non sarà più essenziale se quest’estate vuoi partire per quel viaggio con i tuoi nuovi amici. Così dovrai fare a meno delle polpette di nonna e comincerai a cercare la ricetta su YouTube per prepararli alla compagnia dei colleghi di facoltà.
L'anno della laurea gli amici saranno già diventati la tua seconda famiglia. Sanno molto più loro su di te e sulle tue evoluzioni di quei due personaggi chiamati mamma e papà, che spesso faticano a starti dietro, tanto velocemente stai cambiando. Ora non basta più l’Italia. Anche l’Europa deve essere esplorata, e con lei il mondo. E loro a ricacciare dentro di sé ansie e preoccupazioni e a cercare di capire come funziona Skype o quante ore di differenza ci sono tra Sicilia e California, Bologna e Africa.
Assaggiare
E, mentre continui a camminare per trovare il tuo posto nel mondo, non sempre saranno tutti lì ad aspettare il tuo ritorno. Imparerai che potresti non arrivare a dare l’ultimo saluto alle persone care. A non esserci quando forse avresti dovuto. A farti coraggio perché sai che la tua scelta è legata ad una causa più grande: la realizzazione personale, il tuo futuro. Ci saranno volte in cui ti chiederai se ne sia valsa la pena. Saranno la passione per ciò che studi e la determinazione nel raggiungere gli obiettivi a darti le risposte.
Imparerai sempre più a gestire la burocrazia, universitaria e non, a destreggiarti fra le voci delle bollette. A dover fare i conti solo con te stesso per alcune decisioni. Garantisco che anche alcuni litigi possono diventare routine rassicurante quando puoi ancora permetterti di “dare la colpa” dei tuoi errori a chi ti ha cresciuto.
Impiattare
Ci saranno momenti in cui benedirai la tecnologia, quando la mancanza per quel ragazzo conosciuto in Erasmus si farà insopportabile. Quando un'amica ti chiamerà dalla Francia, dicendoti di raccontarle le ultime novità alla svelta perchè deve andare all'ennesima festa.
La benedirai mentre stai prenotando i biglietti per le amiche di sempre che stanno venendo a trovarti in qualsiasi posto del mondo ti trovi. Capirai anche che, nonostante tu abbia conoscenze da New York e Shangai, quelle che ti stanno vicino da quando portavi l’apparecchio ai denti ed eri pieno di insicurezze sono insostituibili. Anche se magari le insicurezze sono rimaste, ma sono semplicemente diverse.
Ti confronterai con la libertà di vivere le tue relazioni sentimentali, che siano di un mese, di anni o di una notte senza regole né restrizioni se non quelle che tu stesso ti darai. E capirai che la libertà di gestire intimità e vita affettiva può anche rivelarsi un’arma a doppio taglio se l’amore un giorno, come è arrivato, se ne andrà.
Il risotto è pronto e e capisci perché tua mamma era tanto felice quando apprezzavi la sua cucina. E il viaggio mentale che hai fatto nel tempo di preparazione di una ricetta di media difficoltà ha un gusto agrodolce. Come gamberi e lime, come il raggiungimento di consapevolezze sempre nuove.
In pochi sapevano chi fosse prima diMaking a Murderer, serie originale Netflix che ha messo in luce uno dei casi di cronaca più disturbanti della storia americana. Un ventiduenne accusato di stupro nel 1985 e rilasciato dopo ben trent’anni grazie a un test del DNA che lo ha scagionato.
L'ex-carcerato è rientrato in prigione solo pochi anni dopo, accusato stavolta di omicidio. Ma quest’uomo è davvero colpevole? O c’è qualcuno che ha sempre voluto incastrarlo? Making a murderer risponde a queste e altre domande.
Perché vi ho raccontato il caso specifico? Il presunto criminale , fino a un anno fa un perfetto sconosciuto, ha oggi il mondo dalla sua parte:536.713 persone hanno firmato una petizione su Change.org per chiedere al presidente degli Stati Uniti di scarcerarlo. La diffusione della vicenda su scala mondiale non è certo legata a testate internazionali quali il Washington Post o il New York Times ma a Laura Ricciardi e Moira Demos, documentariste d’assalto che hanno portato il caso all’attenzione globale.
Democrazia visiva
Non si sa perché il documentario è stato sempre guardato come un genere meno importante, quasi una sorta di“fratello minore” delle pellicole su grande schermo.
Nel corso degli anni però è un genere che si è saputo reinventare, prendendosi “le giuste rivincite”. Da An inconvenient truth di Al Gore, ai lavori di Michael Moore passando per il più recente Fuocoammare del compaesano Gianfranco Rosi, persino le grandi star hanno abbracciato tale forma di narrazione preferendola al racconto filmica classica (vedi Leonardo di Caprio con Before the flood o Angelina Jolie con A place in time).
C’è da riconoscere che in passato non esistevano piattaforme come Netflix, portale che già dall’inizio ha creato un programma apposito dedicato al genere. «I documentari come modello di storytelling sono qualcosa su cui l'azienda ha sempre puntato. Ora che abbiamo lanciato il Netflix documentary program è sempre più evidente come giornalismo e storytelling si possano supportare a vicenda» dice Lisa Nishimura, vice presidente della sezione Original Documentaries and Comedies.
«Cerchiamo di lavorare con i narratori più innovativi, che alimentano forme alternative nel modo di fare film. E in più abbiamo democratizzato l’esperienza degli utenti nell’accesso ai contenuti».
«Tre quarti dei nostri 200 milioni di profili utente ha visto almeno un documentario lo scorso anno». Netflix sta riuscendo in un' impresa non facile ma che potrebbe dare una scossa reale al mondo dell’’informazione. Making a murdererè uscito nel dicembre 2015 e quasi immediatamente un audience globale si è ritrovata a discutere di una storia che è successa nella contea di Manitowoc nel Wisconsin. Con un articolo, mi spiace, non sarebbe successo»· continua la Nishimura.
Stesso discorso per il successo di pubblico ottenuto per Amanda Knox, panoramica su uno degli episodi di cronaca italiana più controversi degli ultimi anni, e White Helmets, documentario sui soccorritori-eroi in Siria che si è aggiudicato un Oscar, entrambi prodotti nelle scuderie dell’azienda di Los Gatos.
Documentario? Non servono click
Perché i contenuti della piattaforma americana potrebbero essere il punto di partenza per una nuova forma di giornalismo, più partecipativo e condiviso? In un futuro non lontano, il meccanismo di diffusione della notizia potrebbe ribaltarsi. Magari sarà lo spettatore stesso a chiedere maggiori delucidazioni su una vicenda specifica, soddisfando il desiderio di approfondimento che viene a mancare nell'informazione ufficiale attuale, votato al sensazionalismo e alla ricerca di click.
«Il giornalismo oggi ha un ciclo di vita cortissimo. Il modello click & ads in qualche modo lo impone. Noi non abbiamo pubblicità , in nessun modo, quindi non c’è una corsa al denaro e all’esagerazione della notizia». Non più informazione che diventa intrattenimento ma intrattenimento che si fa informazione, scrittura di qualtà, analisi delle fonti.
Con un lavoro di previsione e stima dei gusti dello spettatore, che già viene attuato a nostra insaputa (se non sai di cosa sto parlando leggi qui), il documentario potrebbe diventare la nuova punta di diamante dell’informazione. E ciò che la salverà da menzogna e banalità.