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Quello che non vi hanno detto sulle lauree all'estero

Noi italiani siamo tendenzialmente esterofili.

laureato-1Quel vagheggiare di altre terre come una sorta di Paese dei balocchi ci fa spesso sottovalutare la nostra penisola, sotto numerosi aspetti. È vero che in Inghilterra i ragazzi sono più autonomi, proiettati verso il mondo del lavoro e godono di servizi didattici che in Italia sono ancora impensabili.

Ma cosa accadrebbe se, il giorno  in cui inizi il tuo percorso universitario, dovessi contrarre allo stesso tempo un debito fino ai cinquant’anni? Una somma che equivale a 44mila sterline nel caso migliore?

Giovani, carini e indebitati

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Sicuramente un vantaggio dei giovani inglesi rispetto a noi “bamboccioni” è risultare da subito più autonomi epronti ad affrontare la vita adulta, con tutte le difficoltà del caso. 

Ostacoli che riguardano il fatto che la maggioranza dei genitori anglosassoni non paga le spese universitarie ai figli, che attingono così dai risparmi messi da parte con i lavoretti portati avanti durante il periodo scolastico.

Ma quei soldi di frequente non bastano. Perciò, a percorso concluso, potrebbero trovarsi di fronte a una sorpresa non meno amara di quella dei nostri laureati:  difficoltà a trovare lavoro ma in più, sulle spalle, un debito contratto con lo Stato. A cui si aggiungono eventuali spese di affitto o mutuo nel caso si abbia un progetto più a lungo termine.

In Gran Bretagna mediamente un corso di studi costa 9mila sterline all’anno di tasse, cui vanno aggiunte le spese di mantenimento lontano da casa. Idem, se non peggio, vale per i colleghi americani. Carrie, studentessa 29enne della Pennsylvania, Università di Villanova, Philadelphia, rivela di avere un debito con lo Stato di 65000 dollari.  «Ogni mese devo versare almeno 550 dollari, un quarto del mio stipendio, e con il costo della vita che sale e uno stipendio pubblico non riesco a fare di più. In questo momento ho un piano di restituzione del debito che dura 27 anni e mezzo».

 

Quali soluzioni all’orizzonte?

job-sharingCome se ne viene fuori se l’Inghilterra della Brexit mette in difficoltà i suoi pupilli? Con un cambio di rotta. Abbandonando la terra patrìa e andando in cerca di lavoro sui mercati emergenti di America Latina ed Estremo Oriente

Oppure, per i meno intraprendenti, accettare lavori sempre più precari e mal retribuiti, che faranno aumentare il numero di anni per l’estinzione del debito. Ulteriore strada è l’autoimpiego, ovvero creare un’azienda o una startup da zero. Ma i dati dimostrano che il 60%  delle microimprese messe in piedi dai neolaureati fallisce dopo i tre anni.

C’è ancora una quarta via che forse potrebbe rappresentare il miglior spiraglio all’orizzonte: il job sharing. Molto comune nei Paesi Bassi e in Svizzera, in Italia questa forma di contratto è stata abolita dal Jobs Act, forse ancora troppo poco conosciuta e sfruttata.

In questo caso due lavoratori si obbligano a fornire la stessa prestazione con la facoltà di sostituirsi tra loro discrezionalmente. Insomma due individui che sono intercambiabili, possedendo le stesse competenze. Un contratto, appunto, condiviso con il vantaggio soprattutto di una migliore gestione di ferie e tempo libero.

Meglio la laurea oggi e la disoccupazione domani?

Laureato_IndebitatoIl discorso sul debito universitario sembra molto vicino al vecchio detto dell’uovo e della gallina. Per far un investimento che potrebbe tendenzialmente durare a vita si deve comprendere se ne valga o meno la pena. E soprattutto se un giorno si sarà in grado di ripagare quel debito trovando un impiego adeguato.

Le statistiche dimostrano quanto questo sistema nasconda delle falle: per ripagare il debito contratto molti giovani si lanciano in lavori più sicuri, meno remunerativi e poco qualificati rispetto a titoli e capacità acquisite per riuscire a pagare quella parte di debito mensile. Senza magari rischiare in carriere inizialmente più complicate e faticose in fase di partenza ma ad alto tasso innovativo e che potrebbero garantire sul lungo termine guadagni alquanto superiori.

Un circolo vizioso di costi universitari sempre in aumento, che producono quindi maggior indebitamento tra i giovani, proprio mentre diminuiscono i salari d’ingresso nel mercato del lavoro. 

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di Irene Caltabiano

 

 
 

 

 

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Sex robot, ecco il modo (inquietante) in cui faremo sesso

Gloria e vita alla nuova carne

 

Così recitava l'ultima battuta di Videodrome, pellicola cult di David Cronenberg che celebra uno dei suoi temi ricorrenti: l'insinuarsi nel corpo di qualcosa di nuovo che ne modifica la natura, la creazione di un essere a metà tra macchina e uomo.

 

L'industria filmica si sta sempre più spesso concentrando sul legame fra tecnologia e individuo, una connessione a tratti invasiva per cui la degenerazione è dietro l'angolo. Anche il recente Her di Spike Jonze ipotizzava l'amore tra un uomo e un software. E ormai la realtà sembra non essere molto distante dalla fantascienza.

 

Cosa sono i sex robot

 

Del tutto simili a uomini e donne, anatomia sessuale inclusa. Non solo sono in grado di avere rapporti sessuali con gli umani ma anche di interagire parlando autonomamente. La Frr, Foundation for Responsible Robotics, commissione che analizza i problemi etici e morali legati alla diffusione delle macchine, afferma che nel 2018 non verranno più considerati una forma di feticismo sessuale.

 

 

Lo studio che è stato fatto riguardo la diffusione sul mercato dei sex robot indica che due terzi degli uomini e il 30% delle donne sono a favore di questi ultimi. Prezzo? Attualmente dai 5mila ai 14mila euro, cifra destinata a scendere di pari passo con l'aumento della produzione.

 

I risvolti potrebbero essere numerosi. Uno speciale del Daily Telegraph parla di offrire compagnia e terapia sessuale a persone sole o disabili. Altro vantaggio, tanto utile quanto grottesco, riguarda le coppie a distanza: con i sex robot si continuerebbe ad avere rapporti sessuali, magari con l'aiuto di una macchina che replichi le prestazioni dell'uno o dell'altro compagno o a cui regalare la voce del partner.

 

Quali rischi

 

sex-robot-5A parte il problema etico, i robot del sesso possono presentare alcune controversie. Chi li usa potrebbe diventare sempre più socialmente isolato e sviluppare una forma di dipendenza.

 

Le personalità più disturbate correrebbero il rischio di innamorarsi dell'automa senza, chiaramente, essere corrisposte, poiché  la macchina può soltanto fingere di provare reale interesse o desiderio.

 

Qualcuno afferma che sarebbe verosimile la diffusione dei robot tra gli anziani, in quel caso come semplice compagnia. Ma ciò potrebbe portare, nel caso di malati gravi, a non distinguere più la finzione dalla verità.

 

Le degenerazioni


Tuttavia i suddetti problemi potrebbero non essere la conseguenza più preoccupante. Alcune compagnie stanno creando robot con una personalità timida e riluttante in modo che chi li acquista possa costringere le donne-robot a fare sesso, provando piacere "obbligandole" al rapporto. Un robot dal nome Roxxxy Gold ad esempio, fabbricata dalla compagnia giapponese TrueCompanion, può essere programmata per diventare un personaggio chiamato Frigid Farah.

 

L'azienda nipponica Trottla ha inoltre iniziato a produrre bambole-robot a grandezza naturale in uniforme da scolaretta, rivolgendosi esclusivamente ad un pubblico di pedofili. Shin Tagaki, il fondatore, ha confessato di provare attrazione per le minorenni senza tuttavia aver mai avuto rapporti con ragazzine, sostituendole con la loro versione robot.

 

Un fenomeno inquietante che non servirebbe certo a frenare certi impulsi malsani, come sostiene Tagaki. Il confine tra finzione e violenza reale potrebbe non essere troppo sottile.  Il professore Patrick Lin, docente di Etica robotica afferma infatti: «Proviamo a immaginare cosa succederebbe se il razzismo venisse affrontato permettendo ai bianchi di maltrattare, picchiare o discriminare un robot nero».

irene

 

di Irene Caltabiano

 

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Da ingegnere a chef: quando la passione diventa lavoro

Fare il cuoco? Non basta saper cucinare.

francesco-fricano Servono sudore (correre avanti e indietro) sangue ( tagli e bruciature) e tanta determinazione. Non parliamo di “aristochef”; di chi, attirato dal luccichio dei piani cottura dei programmi tv, vagheggia una carriera tra i fornelli (mentre cucina un cordon bleu accompagnato da un’insalata in busta).

Parliamo di cuochi veraci che si sporcano le mani tra salse e fritture. Qualcuno come Francesco Fricano, che, dopo anni passati dietro una scrivania ha capito che era felice solo quando spadellava per la famiglia o imbandiva la tavola per gli amici. Poco importava una laurea in ingegneria spaziale, anni di studio e l’orgoglio familiare di avere un figlio con un titolo tanto importante, che avrebbe potuto aprirgli qualsiasi porta.

Classe 1985, siciliano di Bagheria, ha capito quanto, nel mezzo del cammin della sua vita, l'esistenza che conduceva gli andasse stretta. È bastato uno stage di un mese e mezzo a Roma, in una grande azienda, per capire che il lavoro dietro la scrivania non faceva per lui. Così, tornato in terra patria, si è messo alla prova. Risultato? In pochi mesi è stato nominato responsabile degli antipasti in un ristorante da una stella Michelin.

Un orto in casa

Antonino-Cannavacciuolo

«A Roma condividevo l’appartamento con una signora che come me aveva passione per la cucina, faceva il panein casa e coltivava un piccolo orto».  Le ore trascorse a curare piantine e occuparsi della loro crescita sono diventati il più bel ricordo del soggiorno romano di Francesco.

Leggi anche: Il mio sogno è diventare un grande chef. Sì, ma come?

 Terminato il master, l'allora aspirante ingegnere torna in Sicilia e, nell’attesa di ricevere risposta a qualche curriculum, la sorella gli regala un corso di cucina dello chef  Antonino Cannavacciuolo.  «Quando ho fatto quel percorso ho avuto la certezza che volevo lavorare tra i fornelli».

 

Rimettere tutto in discussione

Francesco-fricano-I sogni e le aspirazioni reali possono rimanere nascosti per anni, sotto un mare di ( false) consapevolezze. Finchè non succede qualcosa che ti mette di fronte alla verità, magari la stessa che non eri in grado di ammettere a te stesso. 

Nel caso di Francesco è stata una chiamata dalla Ferrari, alla quale aveva mandato un curriculum appena rientrato in Sicilia. «Per un momento ho vacillato perché quando scelsi di iscrivermi a ingegneria il mio sogno era proprio quello di lavorare lì; poi mi sono immaginato la mia vita da ingegnere e ho finalmente capito cosa volevo davvero».

Riconosciuta dunque la sua vera vocazione, era tempo per il neofita di mettersi all’opera. Nonostante la poca esperienza professionale ottiene un colloquio nel ristorante I Pupi di Bagheria

«Lo chef mi ha proposto un periodo di prova di due settimane; ero convinto non avrei resistito più di tre giorni. All’inizio facevo i lavori più semplici come pelare patate o tritare l’aglio. Poi hanno notato il mio entusiasmo e ho fatto un periodo di affiancamento in cui ho imparato tantissimo. Alla fine sono diventato responsabile degli antipasti».

Un consiglio per chi sente che la cucina è la sua strada? 

Avere il coraggio di abbandonare il certo per l’incerto. E soprattutto non rimpiangere le esperienze pregresse . 

«Se oggi faccio ciò che amo e sono soddisfatto della mia vita è anche grazie alle mie scelte passate, a quello che sono stato e che ho fatto. Il mio spirito scientifico è presente in ogni piatto perché per me la cucina è, innanzitutto, chimica; sono sempre alla ricerca della replicabilità perfetta di ogni piatto, sto attento alle temperature, ai dosaggi e da buon ingegnere nella mia cucina regna l'ordine assoluto».

Sogni anche tu di diventare chef? Scopri di più!

irene

 

di Irene Caltabiano

 

 

 
 

 

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