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Competenze digitali? Google apre una scuola per nuovi talenti

Buckingham Palace Road, zona Victoria.

Big G non teme la Brexit. La sua fame di insegnare digital skills è trasversale ed è indirizzata agli adolescenti  come ai proprietari d’azienda, a chi volesse avvicinarsi per la prima volta a questo mondo e chi desiderasse incrementare le sue capacità. Google ha aperto nel suo ufficio londinese la Digital Skills Academy, uno spazio di oltre 10mila metri quadri nel pieno centro di Londra.

Per alcuni un’operazione di marketing, (dal momento che gli allievi saranno circondati dai prodotti Google e il colosso di Mountain View sta aprendo un’enorme headquarter a King’s Cross) per altri una buona opportunità  per chi è assolutamente analfabeta in materia.

L’apertura  dell’Academy è stata supportata dal governo inglese, nello sforzo di diffondere la cultura digitale nel Regno Unito. L’iniziativa si inserisce in un quadro più ampio di azioni che Google sta portando avanti per “coltivare” talenti nei settori digitali.

Cosa si studia

La sede di Londra non è certo l’unica in giro per il mondo con l’intenzione di offrire spazi di co-working. Sette strutture sparse per il mondo, tra Madrid, Varsavia, San Paolo e Tel Aviv. In questi campus vengono attivati programmi intesi ad aggregare le persone: startup weekend, hackhaton ( incontri con personalità importanti dell'informatica) e demo day più eventi di start-up grind, ovvero connessioni con founder, insegnanti e investitori del luogo.

 

«Abbiamo creato il campus per ispirare chiunque, dal bambino al Ceo d’azienda, a far parte del piano di Google per costruire forti capacità digitali in tutto il Paese» ha detto Ronan Harris, Managing Director di Google Uk alle testate britanniche.

Il primo corso si chiamerà Get started in tech e sarà organizzato dal Prince’s Trust, associazione fondata dal Principe Carlo che si occupa di aiutare i giovani ad entrare nel mondo del lavoro attraverso training e formazione.

Obiettivo? Creare nell’area almeno 3000 posti di lavoro entro il 2020.

Perché Londra?

Harris ha parlato del motivo per cui la scelta sia ricaduta sulla capitale inglese«L’ambizione di crescere, sfruttare nuove tecnologie e costruire aziende più brillanti e migliori è stata costante negli anni. Le industrie che vanno dalla dalla moda, alla musica, alle auto lavorano in continua collaborazione  con il governo, l’ufficio del sindaco e le comunità di startup. Londra può aprire la strada verso un ambiente globale più competitivo».

 

di Irene Caltabiano

 

 

 

 

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Fare la spesa al discount: marchi famosi travestiti da sottomarche

Spendere meno non significa rinunciare alla qualità.

Una buona parte degli italiani è ancora convinta che fare la spesa al discount equivalga a comprare prodotti di Serie B e che risparmiare significhi rinunciare all’ingrediente più importante: la qualità.

Un tempo era senz’altro così e forse è proprio questo retaggio culturale ad alimentare il pregiudizio. Anni fa, chi non poteva permettersi di acquistare i prodotti più buoni e quindi costosi, faceva di necessità virtù e si consolava con le sottomarche. Il portafoglio smetteva così di piangere, ma il palato non era certo soddisfatto (e talvolta nemmeno lo stomaco).

Oggi, vivaddio, la situazione è cambiata. I grandi produttori si sono resi conto che rinunciare alla fetta di mercato costituita dai consumi delle classi meno abbienti è un atto suicida. Perché lasciare che marchi stranieri o comunque di dubbia provenienza si portino via volumi di denaro che invece potrebbero finire nelle proprie casse?

Tra l’altro il modo migliore per combattere la concorrenza, si sa, è eliminarla. L’affermazione potrebbe suonare vagamente rude, ma tant’è: i big del settore alimentare italiano hanno cominciato a produrre per conto terzi, nei medesimi stabilimenti, limitandosi a rietichettare la merce.

Succede allora che il latte Conad sia prodotto dalla Granarolo, che il tè Coop sia in realtà della San Benedetto e che i frollini Todis vengano sfornati dalla Colussi. Differenze con l’originale? Nessuna, tranne l’etichetta e il packaging, poiché anche le tabelle dei valori nutrizionali sono identiche.
 

Non paghiamo il cibo, ma il marketing.

È proprio questo il punto. Il prodotto famoso, quello sulla bocca di tutti, giace su una nuvoletta chiamata “marketing” che gli dà visibilità e gli conferisce autorevolezza. Nessuno oserebbe mettere in dubbio la qualità di un alimento reclamizzato da un testimonial d’eccezione come Gigi Proietti o George Clooney (tanto per citarne un paio che hanno prestato la propria immagine all’industria del caffè).

Vedi qualcosa di simile in tv e immediatamente lo associ a un elevato standard di qualità, ti fidi ciecamente. Il perché è presto detto. Tutti noi, inconsciamente, siamo portati a pensare che se un’azienda s’è potuta permettere di ingaggiare un vip per la réclame, pagandolo a peso d’oro, vuol dire che produce roba coi fiocchi.

Se poi all’immagine illustre si aggiungono slogan ipnotici (“Se non ci fosse bisognerebbe inventarla”, “L’equilibrio giusto tra nutrimento e gusto”, “Più lo mandi giù e più ti tira su”) e confezioni con una grafica impeccabile, ecco lì che il successo è garantito.

È per questa serie di motivazioni che gli alimenti che troviamo nei discount hanno un prezzo notevolmente inferiore: evitare la pubblicità dei prodotti, così come ridimensionare le spese legate al packaging e al trasporto, consente di abbattere i costi e ciò gioca a vantaggio del consumatore.

Il modus operandi dei big della produzione.

Come già anticipato, un aumento della produzione comporta per i grandi marchi una crescita dei profitti. Fatto ciò si provvede a monitorare la situazione per decidere se continuare o sospendere la fornitura di questo o quell’altro bene alimentare. Ecco perché talvolta, nei discount, non troviamo più un prodotto che eravamo abituati ad acquistare.

Il grande marchio produce un alimento ics per conto terzi che viene venduto al dettaglio a un prezzo sensibilmente più basso di quello del prodotto brandizzato. Qualora il discount registri volumi di vendita elevati nel lungo periodo, per quel dato alimento, il produttore ne bloccherà verosimilmente la fornitura.

Il motivo? Avendo ormai creato “dipendenza” nel consumatore, è presumibile che d’ora in poi quest’ultimo sarà disposto ad acquistare l’originale, pur di non rimanere senza. Se invece la fornitura continuasse, per il produttore sarebbe un autogol: sempre meno clienti acquisterebbero l’alimento brandizzato e sempre più quello rietichettato. Paradossalmente, dunque, il discount guadagnerebbe più del grande marchio.

Alla fine della fiera, chi tiene il coltello dalla parte del manico è sempre il produttore, tuttavia questo nuovo sistema consente un maggiore equilibrio e dà lavoro a più persone. Un maggior numero di operai, infatti, è impiegato nelle linee di produzione per soddisfare la domanda e la nascita dei discount ha reso necessaria l’assunzione di numeroso personale dipendente.

In tutto questo, il cliente ha la possibilità di risparmiare fino a 1400€ l’anno sulla spesa, senza rinunciare alla qualità. Un tipico esempio di processo win to win.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 
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Il Dark Web, questo sconosciuto

Forse non tutti sanno che…

Internet non è solo YouTube, Facebook, Google, Amazon, Wikipedia e tutta quella miriade di siti o portali che siamo abituati a frequentare quotidianamente. Esiste anche il Web sommerso, alias Deep Web, che si compone di tutte le risorse informative del World Wide Web non indicizzate dai comuni motori di ricerca.

Quel che fa sorridere è che questo mondo sconosciuto supera di gran lunga, per dimensioni, la rete Internet come ce la immaginavamo noi. Dei cinquecentocinquanta miliardi di documenti presenti in rete, infatti, Google ne indicizza appena due (circa lo 0,36%).

 

Ciononostante, chiunque di noi visita il Deep Web molto più spesso di quanto immaginiamo. Ad esempio accedendo al proprio profilo Facebook, controllando la posta elettronica, il conto corrente online o entrando nella Intranet aziendale. Il fatto che questi sistemi siano protetti da username e password li rende inaccessibili ai motori di ricerca.

Tuttavia esiste un sottoinsieme del Deep Web, chiamato Dark Web, che per altre ragioni risulta anch’esso invisibile a Google & Co..

Il lato oscuro della rete.

Ingaggiare killer o ladri professionisti, soldati mercenari, spacciare droga, vendere armi o scambiare file contenenti materiale pedopornografico: queste sono solo alcune attività criminali o, nella migliore delle ipotesi semplicemente illegali, che avvengono in questo spazio. Un luogo paragonabile ai bassifondi di una città e per certi versi  assimilabile al vecchio mercato nero.

Va però detto che il Dark Web non è frequentato solo da delinquenti ma anche da persone che vivono in paesi soggetti a dittatura e si battono per il riconoscimento dei diritti civili. Molto importante, in questo senso, il ruolo che tale rete svolge per comunicare col mondo esterno e denunciare abusi e violenze.

Il lato oscuro della rete è irraggiungibile attraverso una normale connessione Internet senza far uso di software particolari, poiché giacente su reti sovrapposte chiamate genericamente Darknet. Le più comuni, tra quest’ultime, si chiamano TOR, I2P e Freenet.

La navigazione è teoricamente anonima, mentre le comunicazioni sono crittografate e prima di giungere a destinazione rimbalzano tra diversi sistemi così da impedirne la tracciatura. Ciò spiega perché i criminali prediligano questo ambiente per i loro traffici.

Il grado di riservatezza delle comunicazioni dipende comunque dalle abitudini dell’utente che, qualora non fosse particolarmente esperto, potrebbe incappare in alcuni errori che svelerebbero la sua identità. Un banale esempio è quello di webcam e microfono del pc: non basta assicurarsi che siano spenti, poiché un hacker scaltro è in grado di accenderli da remoto all’insaputa dell’utente.

Il paradosso.

Gli esperti garantiscono che nel Dark Web accadano cose davvero inimmaginabili che spesso hanno ispirato autori e registi di Hollywood. Nel film Il Santo ad esempio il protagonista Val Kilmer, era un ladro professionista che usava le darknet per procacciarsi il lavoro, soddisfacendo le richieste più bizzarre e pericolose.

Negli ultimi anni le forze dell’ordine di molti paesi hanno sviluppato strumenti (sostanzialmente dei virus informatici) e tecniche d’infiltrazione per scovare i delinquenti che portano avanti i traffici in questa sorta di inferno dantesco virtuale.

Il fatto curioso è che i governi stessi si servono delle darknet per movimenti “poco chiari” e attività di spionaggio. Del resto il sistema TOR (The Onion Ring) è stato inventato nei laboratori della Marina Militare degli Stati Uniti proprio per preservare le comunicazioni della CIA.

Un progetto inizialmente top secret e a stretto uso militare, messo a punto per proteggere i buoni dai cattivi, è stato reso un sistema aperto per semplificare il lavoro a migliaia di criminali e terroristi sparsi in tutto il mondo. E adesso, paradossalmente, ci si scervella per elaborare tecniche in grado di stanare chi prima, se non altro, era costretto a operare alla luce del sole.

La domanda nasce allora spontanea: non sarebbe stato meglio se le darknet fossero rimaste top secret?

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 
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