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Un attentato terroristico è davvero imprevedibile?

Lo scenario.

Francia, Belgio, Germania, Inghilterra: l’Europa è sotto l’assedio dei soldati del Califfato. Parigi, Nizza, Bruxelles, Berlino, così come Londra e Manchester, si scoprono improvvisamente simili a realtà come Gerusalemme, Tel Aviv e Beirut. 

Kamikaze che si fanno esplodere in mezzo alla folla, giustizieri armati di mitra, coltello o addirittura di camion che in nome di Allah uccidono gente indifesa, colpevole solo di trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

Scene che per decenni abbiamo visto nei telegiornali e pensavamo riguardassero soltanto paesi a noi lontani, sia geograficamente che culturalmente, oggi appartengono al nostro quotidiano e rischiano di diventare una triste, tragica routine. 

Così come in Medio Oriente, anche da queste parti, ormai, andare a far la spesa al mercato, assistere a un concerto o attraversare un ponte equivale a sfidare la sorte.

 

Mancano solo i check-point, a questo punto, dopodiché passeggiare a Roma oppure a Kabul provocherà lo stesso stato d’animo. Ansia, paura, instabilità, senso di accerchiamento: è questo che si prova oggi, in piazza o nei pressi di una qualsiasi fermata della metropolitana. 

Militari armati fino ai denti accanto allo stesso tipo di camionette che vediamo in tv, nelle zone di guerra, presidiano ogni angolo delle nostre città. Il che, di fatto, significa che anche noi viviamo in zona di guerra.

Quello che ci raccontano.

Mentre ci stiamo inconsciamente abituando a tutto questo, al punto da considerarlo normale, i mezzi d’informazione dipingono gli autori degli attentati come cani sciolti che agiscono in modo del tutto imprevedibile

C’è poco da fare, insomma: morire per mano di un estremista islamico è un’eventualità da accettare come quella di essere colpiti da un virus per il quale non esistono cure né vaccini.

Tuttavia non c’è stata una sola volta in cui i media non abbiano riferito che l’attentatore era già noto alle forze dell’ordine e ai servizi segreti del paese in cui ha seminato il panico. Ciò stride notevolmente con il concetto di “imprevedibilità” e suscita indignazione.

Anziché lasciare questi criminali a briglia sciolta, non sarebbe forse il caso di rinchiuderli nelle patrie galere a tempo indeterminato? Questa soluzione, oltre a sembrare la più logica, è sicuramente meno dispendiosa e invasiva rispetto alla militarizzazione delle città. In ogni caso, la necessità di prevedere quando e dove si consumerà il prossimo attacco fa tornare alla mente la battaglia tra l’intelligence britannica e le forze naziste durante la Seconda Guerra mondiale.

La macchina di Turing.

Fino al 1941 la Germania di Hitler stava dominando il conflitto anche grazie alla macchina Enigma, un sofisticato crittografo capace di rendere indecifrabili le comunicazioni radio naziste, benché queste fossero sistematicamente intercettate dall’esercito di Sua Maestà. 

Le sorti della guerra sembravano ormai segnate, finché un matematico geniale di nome Alan Turing inventò una macchina (la cosiddetta Bomba) in grado di violare i cifrari tedeschi. Da quel momento in poi, per gli inglesi il nemico non aveva più segreti.

Tuttavia si presentò un ulteriore problema: non farlo sapere ai nazisti, che altrimenti avrebbero cambiato i codici e vanificato tutti gli sforzi di Turing e dei suoi collaboratori. 

A tal proposito il matematico elaborò un algoritmo per calcolare il numero massimo di attacchi tedeschi da sventare per far sì che questi non sospettassero di essere “ascoltati” dal nemico.Concedendo a Hitler di vincere alcune battaglie, quindi, gli inglesi riuscirono a vincere la guerra. Ciò, fatalmente, comportò il sacrificio di migliaia di soldati britannici ignari del proprio destino.

E se anche noi fossimo vittime sacrificali?

Corre l’anno 2017 e in quanto a tecnologia, know how e menti brillanti l’Occidente non ha davvero rivali. È lecito ipotizzare, pertanto, che esistano strumenti in grado di sapere con esattezza quando una cellula terroristica entrerà in azione

Lo dice il buon senso, lo dice la storia. Nessuna meraviglia se tra quaranta o cinquant’anni ci diranno che anche quanto stava per accadere al Bataclan era noto a chi di dovere, ma per cause di forza maggiore si è deciso di non impedirlo. Esattamente come accadde ai tempi di Turing (la verità è stata rivelata dal governo britannico soltanto nel 1974, ndr).

Impariamo allora quantomeno a diffidare dei primi ministri dell’Unione Europea che sfilano a braccetto davanti alle telecamere con l’aria afflitta, dopo questo o quell’altro attentato. Con ogni probabilità, infatti, questi signori conoscevano in anticipo le mosse dell’avversario.

Da abili giocatori di scacchi quali sono, tuttavia, hanno deciso di sacrificare qualche pedone per arrivare allo scacco matto. Anche perché, parliamoci chiaro, in mezzo a quei pedoni non c’è mai un loro figlio, parente o affine, per cui la perdita risulta indolore.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 
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Libri e cinema: una combo hollywoodiana vincente

Il cinema è...

cinema-vintageVi siete mai chiesti come faccia il grande schermo a garantire allo spettatore quell’effetto magico di pura estraniazione dalla realtà? Chi o che cosa smuove le basi per poter raggiungere l’effetto finale?

Non sarò di certo io, qui ed ora, a svelarvi le origini del cinema che, appassionati o meno, tutti conoscono alla perfezione. La grande invenzione che, con il suo fascino, può associare contenuti educativi rendendosi strumento pedagogico, tramite il potere delle immagini in movimento. 

La storia insegna. Il potere del mezzo cinematografico sulle masse, ben utilizzato come strumento di propaganda negli anni dei totalitarismi europei, strumentalizzato proprio per veicolare messaggi ideologici e politici sul pubblico.

 Questo accadeva quasi un secolo fa. Se è cambiato qualcosa? Non esattamente, l’obiettivo finale è lo stesso. Ma esiste un altro elemento che merita di essere coinvolto.

Inchiostro e carta, diamo inizio ai giochi!

spider-man

Mai come nell’ultimo decennio il libro, romanzo o best seller che sia, gioca un ruolo così importante. Bisogna prenderlonella sua naturale essenza: essere anch’esso un media, se non il media per eccellenza. Libri e cinema si completano tra loro. Non sono né saranno mai l’uno la prosecuzione dell’altro, ma fino ad un certo punto concorrono in maniera simbiotica a soddisfare la curiosità dello spettatore sul loro contenuto. 

Nella maggior parte dei casi, in realtà, fra libro e grande schermo incappiamo anche nella televisione, che con le fiction permette allo spettatore di dare un volto reale a ciò che fino a quel momento esisteva solo nella sua immaginazione.

 

Il successo del film è la materializzazione della necessità del fan di proseguire con gli eventi della narrazione. È la curiosità che spinge verso il cinema lo spettatore, che si tuffa in questo salto trans mediale pur di continuare a seguire i propri beniamini. Eroi appartenenti prima alla narrazione testuale, poi alla TV ed infine al cinema.

 Non abbiate paura, perciò, di ritrovarvi di fronte all’ennesimo trailer di Spiderman proposto ormai in tutte le salse (ed in tutte le età). Il lettore è quella persona che corre nelle sale cinematografiche perché non sa cosa realmente lo attende. Se il film dimostrerà fedeltà alla trama o se cambierà qualche piccolo particolare facendo però in modo, a prescindere, che se ne parli. Non è forse questo ciò che chiamiamo successo ?

 

di Giorgia Sollazzo

 

 
 
 
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Affitti? Stringere denti e metri quadrati

Come sono cambiati i sogni

confusioneSiamo la generazione dei navigatori senza una rotta, trasportati dall'oceano di esperienze e occasioni, senza un’àncora, metaforica o fisica, a cui aggrapparci.

 I nostri genitori erano certi che una casa, un buon lavoro e una relazione stabile significassero aver trovato il proprio posto nel mondo. O almeno di aver raggiunto ciò che dai più era considerato un equilibrio economico ed emozionale. 

È ancora così? Da cosa dipende quest’inquietudine che, anche una volta ottenuti "i lascia passare per la vita adulta", ci porta a non riuscir mai del tutto a varcarne la soglia? Che ci fa rimanere impantanati in quel confine sottile tra il crescere e l'accontentarsi di un'esistenza non all'altezza delle proprie aspettative? Quella sensazione che spinge a chiedersi: è davvero questo che voglio?

La casa come metafora

coinquilini

Qualche giorno fa mi sono ritrovata a discutere con alcuni amici del perché la gran parte delle persone, con i soldi che spende mensilmente per pagare una stanza, continua a preferire un affitto piuttosto che aprire un mutuo per comprare un appartamento?

Non stiamo parlando di studenti. La co-abitazione tra i trenta e i quarant’anni è  un fenomeno sempre più diffuso. Stipendi più bassi? Non avere la certezza di cosa ne sarà di noi fra sei mesi o un anno? O forse è la generazione '80-'90 che ha semplicemente cambiato aspirazioni,trovandosi di fronte a possibilità professionali e una facilità di spostamento superiori a cinquant'anni fa?

 

Esistono alcuni dati oggettivi che spiegano la tendenza a non mettere radici.  Il boom del co-housing è scoppiato anche perché molte persone preferiscono condividere un appartamento all'acquisto di un costoso monolocale. 

Spesso risulta soffocante vivere in venti metri quadrati; nello stesso spazio si deve cucinare, dormire, guardare la tv e tutta una serie di attività quotidiane. 

A parità di prezzo o a costo minore si opta per spendere i propri risparmi tollerando la presenza di estranei, che potrebbero rivelarsi o meno affini al proprio carattere o abitudini. Ma nonostante il rischio di una convivenza difficile si continua a scegliere la vita fra coinquilini ottenendo in cambio ambienti meno claustrofobici.

Siamo figli …de(i prezzi a)lle stelle

affitti

Gli affittuari sono ben consapevoli di tale tendenza e ne approfittano, alle volte aumentando di parecchio le cifre. Se si ha a che fare con lavoratori anzichè con studenti, il prezzo iniziale lievita.

Si tende a pensare che chi non è disoccupato, percependo uno stipendio, abbia maggior potere d’acquisto. Ma non sempre è così. Se infatti nella fase studio i genitori, con sacrificio, passano una quota mensile, dopo il primo contratto arriva il momento in cui devi cominciare a sbrigartela da solo. 

Non perché mamma e papà chiudano il portafogli ma per un (corretto) senso di gratitudine e costruzione della propria indipendenza. L'orgoglio però non sempre corrisponde ad una reale possibilità di autonomia economica.

 Non parliamo poi del gap che esiste fra lo stile di vita di chi ancora studia (uscire la sera, fare tardi, essere tendenzialmente meno responsabilizzato) e chi lavora ( passare almeno otto ore alla scrivania e al ritorno nella propria dimora desiderare pulizia, un clima tranquillo e andare a dormire presto). Una realtà e un disagio che serpeggiano senza nome. 

Il triangolo delle bermuda

coinquilini-2Internet è un calderone di storie, se ne trovano a bizzeffe. Ventenni che convivono con persone che hanno il doppio dei loro anni, a volte anche con figli. Il "triangolo delle bermuda" è sempre lo stesso: Milano, Roma e Torino (un po’ meno Bologna). 

«Vivo qui ( a Milano) da cinque anni» dice una ragazza «e sono alla quarta condivisione. Come si fa ad avere scelte con questo caro vita e dei lavori a progetto? Molte delle mie amiche hanno accantonato l’idea di matrimonio». 

Oppure un’altra donna scrive, non senza un certo senso di frustrazione che trapela dalle sue parole: «Sono separata , continuo a pagare il mutuo della prima casa, ho un figlio e co-abito in una casa grande. Almeno la casa è più spaziosa».

La domanda sorge spontanea: abbiamo paura del futuro, di una vita che sembra non appartenere più ai millenials o semplicemente l’avvenire come si prospettava ai nostri genitori non esiste più? Forse è presto per dare una risposta. Le evoluzioni della società, per essere attestate, vanno in primis vissute.

 

di Irene Caltabiano

 

 
 
 

 

 

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