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O' Muniacello, un po' di Napoli a Miami

Le profumate mele Annurca, i limoni di Sorrento, il basilico fresco, i peperoncini e i pomodori piennolo.

muniacello-1Ma anche le tovaglie con la smorfia stampata, le immancabili foto di Totò e Maradona, e in un angolo, magico e immortale, il golfo della città addo’ tutt’ ‘e pparole so’ doce e so’ amare, ma so’ sempe parole d’ammore. 

O’Muniacello in napoletano significa "piccolo monaco",  spiritello dispettoso ma benevolo che, leggenda vuole, alberga nelle case partenopee, citato persino dalla scrittrice Matilde Serao. E forse Leonardo Scuriatti, Valentina Borgogni e Carmine Candito un po’ ci si ritrovano nell’animo giocoso della maschera della tradizione; lo stesso personaggio che dà il nome alla pizzeria al 6245 di Biscayne Boulevard Corner, nel cuore della soleggiata Miami.

Tu vo' fare l'italiano

carmine-muniacello

Napoli è più un modo di essere che una città. I tre intraprendenti ragazzi,originari del capoluogo campano, hanno voluto ricostruire, attraverso sapori e profumi, l’atmosfera di una località dal fascino senza tempo. Non manca nulla, dalla mozzarella di bufala al casatiello, dai babà alle zeppole di San Giuseppe, tutti rigorosamente importati, per deliziare ogni tipo di palato. Il grande successo della sede di Firenze (Via Maffia, 31) ha infatti incoraggiato il team a voler allargare i propri orizzonti. 

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«Siamo tre soci giovani» dice Carmine, il simpatico e indiscusso principe del forno a legna, che, prima di approdare in Florida, ha lavorato fin da piccolo da Un posto al sole, la famosa pizzeria del papà. «Avevamo voglia di espanderci. La cucina italiana negli Stati Uniti è amata e ricercata. Miami vede due milioni di turisti italiani ogni anno e altrettanti espatriati; infatti, dopo due mesi dall’apertura, avevamo già la fila fuori dal locale. Sono venuti anche Bobo Vieri e Alessandro Nesta» .

In Italia, ma soprattutto nel Meridione, la tavola è tradizione e cultura. Il piacere della convivialità come collante sociale ha subito impressionato i cittadini americani. «Miami è compatibile con lo spirito campano. Qui è sempre festa, un’estate che non finisce mai, tra i colori abbaglianti del mare, la gente che passeggia, la spiaggia piena di ragazzi».

 

Il calore del Sud nel piatto

trio-muniacelloLa contagiosa gioia di vivere dei tre scugnizzi ha fatto da calamita per l'incremento della clientela«L’ospite che si ferma può godere di racconti di lunghe distese di viti, di visioni maestose del Re Vesuvio e delle suggestioni colorate dei tramonti sul mare» afferma Valentina, la rappresentanza femminile del trio. «Ogni angolo del ristorante è stato accuratamente curato per regalare l’essenza  del calore del Sud Italia».

Una novità che sta riscuotendo parecchio successo tra espatriati e autoctoni è la pizza nera, di cui Carmine va particolrmente fiero. L’impasto tradizionale viene infatti mescolato con una piccola quantità di carbone vegetale, elemento che la rende particolarmente digeribile e adatta a chi avesse intolleranze.

Un piezz’ e core che vi lascerà sorpresi. E satolli. 

di Irene Caltabiano

 

 
 

 

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Sono solo canzonette? Quando il ritornello diventa pericoloso

Tu chiamale se vuoi emozioni.

La musica accompagna la vita delle comunità umane da almeno cinquantacinquemila anni e non esiste cultura in cui non siano rintracciabili segni della sua presenza. In principio sotto forma di pura e semplice melodia riprodotta da uno strumento, successivamente con la nascita delle canzoni.

Un’infinità di correnti artistiche si sono succedute nel corso dei secoli fino ad arrivare ai generi degli anni più recenti, in cui la struttura dei brani è facilmente riconducibile a uno schema strofa-ritornello. La storia che ogni artista racconta è condensata appunto nelle strofe, mentre il ritornello somiglia più a un inciso in cui si evidenziano le considerazioni e le convinzioni dell’autore. Per rendere il refrain ancor più penetrante, in genere si adottano un cambio di melodia e un tono più marcato, scegliendo parole facilmente memorizzabili.

È proprio questa la missione del ritornello: deve entrare nella testa di chi l’ascolta, andare in loop per un numero imprecisato di volte e, a Siae piacendo, non uscirne mai più. Il compito della musica, dunque, è quello di suscitare un forte impatto emotivo così da favorire la sedimentazione dei contenuti (una tecnica usata anche nel cinema e in ambito pubblicitario).
Le canzoni di maggior successo hanno avuto il potere di insinuarsi nel gergo comune proprio attraverso l’inciso. Si pensi a Con il nastro rosa di Mogol-Battisti e a quante volte abbiamo usato l’espressione “lo scopriremo solo vivendo” nella vita di tutti i giorni. È divenuta così popolare che spesso è confusa col titolo stesso del brano, come si può constatare attraverso una semplice ricerca su YouTube.

Un’arma a doppio taglio.

A volte capita di ascoltare distrattamente la radio e imbattersi in una nuova canzone. Magari si è impegnati in qualche attività e non si presta la dovuta attenzione alle parole, mentre si rimane piacevolmente colpiti dalla melodia.

Tuttavia il nostro inconscio registra tutto, anche se consapevolmente siamo convinti di non aver memorizzato niente. Il cervello umano, infatti, si compone di miliardi di neuroni, ciascuno dei quali può elaborare milioni di informazioni al secondo. A livello consapevole, invece, emerge solo una minima quantità di questi dati, attimo dopo attimo. È per questo che quando siamo concentrati su qualcosa, tutto il resto sembra non esistere. Tutto ciò che viene immagazzinato a livello inconscio, però, diventa un vero e proprio programma mentale che in occasioni future sarà richiamato e spingerà a compiere una determinata azione.

Tornando al tema musicale, ascoltare brani come l’attualissimo Faccio un casino di Coez, in cui nel ritornello si ripete la frase “amami o faccio un casino”, può essere pericoloso. Suona assurdo, vero? In fondo il testo parla della classica storia finita male tra un uomo e una donna, e di lui che, essendone ancora innamorato, la rivuole accanto a sé. Nel 2003 fu invece Ulivieri, un artista emergente, a scrivere un pezzo intitolato Io ti amo (ma devo ucciderti). Anche in quel caso, l’espressione era ripetuta più volte nell’inciso a mo’ di tormentone e si parlava di un rapporto di coppia travagliato.
Sicuramente in entrambi i casi si è trattato di semplici leggerezze lessicali e gli autori non avevano la minima intenzione di istigare qualcuno a compiere insani gesti, tuttavia il messaggio divulgato è quantomeno discutibile.

Il cervello non distingue tra realtà e fantasia.

Per quanto gli autori possano essere stati metaforici, l’ascoltatore medio recepisce solo il senso letterale di quelle parole, peraltro accompagnate da una musica accattivante. Inoltre, poiché sono state proferite da una fonte autorevole (tale è considerato un cantante che ha notevole visibilità mediatica), attecchiscono con maggiore facilità. Ciò significa che nel momento in cui ci si troverà di fronte a una situazione simile, a livello personale, si potrà seriamente pensare di “fare un casino” oppure “uccidere”.

Viviamo in un’epoca in cui fidanzati o mariti gelosi non riescono a gestire le proprie emozioni, men che meno l’abbandono, e sfregiano le loro donne con l’acido, le ardono vive o le accoltellano a morte. Diffondere messaggi come quelli delle suddette canzoni equivale a rafforzare (e radicare) in certi uomini l’idea che simili comportamenti siano plausibili. Sarebbe il caso, quindi, di fare molta attenzione a ciò che si scrive e si condivide con gli altri, per evitare di contribuire a creare realtà spiacevoli.

Anziché i soliti versi piagnoni che tradiscono l’evidente stato di nevrosi infantile in cui versa l’autore, sarebbe poi interessante cominciare a scrivere storie dove tizio e caia accettano serenamente la loro separazione e procedono ciascuno per la propria strada. A quanto pare, però, è opinione comune che un simile atteggiamento attenga unicamente ai supereroi.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 
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Di talk show, banalità e 15 minuti di celebrità

Neotelevisione?

talk-showNe sono passati di anni da quando gli eroi del palinsesto italiano sgomitavano per emergere fra giochi di prestigio, cabaret e gare canore. Era un buon mezzo secolo fa, infatti, quando i programmi di intrattenimento leggero fecero il boom. La TV fatta di luci, sigle, sketch comici e balletti coreografati al limite della decenza.

 In principio...

Era il grande varietà degli anni Settanta. Il genere che sembrava insostituibile nel rappresentare l’Italia e gli italiani, fino a quando si è visto surclassare dai ben noti talk show. Questi veri e propri salotti da conversazione mettono a confronto personaggi noti del mondo dello spettacolo che parlano di vita privata con protagonisti di fatti di cronaca nera messi lì a fare lo stesso. Uguale intensità di ascolto, medesima spettacolarizzazione.

E ci domandiamo dove sorgano i problemi culturali della generazione attuale? Il seno rifatto della supermodella belenrichiesta dai più grandi stilisti fa scalpore tanto quanto il genocidio commesso in pieno centro pochi giorni prima. Un tempo la televisione teneva gli spettatori incollati allo schermo per intrattenere e “staccare” dalla noia. Ed oggi? Non è forse il contrario? Non siamo noi, per primi, che cerchiamo la noia in TV per fuggire dai fatti assurdi, frenetici e surreali che ormai accompagnano le nostre giornate?

Siamo ciò che osserviamo

C’è il bisogno vitale di osservare, spiare e studiare la realtà. Ecco quindi che, il piccolo schermo, perde quel ruolo di palcoscenico, costruito e sedimentato negli anni, per fare posto alla messa a nudo di sentimenti, reazioni ed emozioni di gente comune. Il reality show permette allo spettatore di "guardarsi allo specchio" tramite una duplice ottica: fai come me oppure prendimi come esempio negativo.

Grande-fratelloSiamo liberi (almeno in questo) di affrontare a nostro favore ciò che il palinsesto ci propone sempre più di frequente, quasi imponendocelo. Osservare la vita di quindici persone chiuse in una casa (sicuramente da compatire: nullafacenza, piscina e tintarella) e scegliere di comportarsi esattamente come loro oppure guardare il programma nella sua universale essenza televisiva: finzione ed atteggiamenti costruiti. Conclusione? La realtà rimane sempre quella che sta  al di fuori di quelle quattro mura. È lì la verità. E che ci piaccia o no, che ci annoi o meno, sarà sempre lei che ci accompagnerà nella quotidianità.

Almeno fino a quando non sceglieremo di cambiare canale.

 

di Giorgia Sollazzo

 

 
 
 
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