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Che non si muore di lavoro è una gran bella bugia

In Giappone si chiama karoshi e significa letteralmente morte per eccessivo lavoro

Sembra impossibile che si possa arrivare a un tale livello di stanchezza e stress da preferire il suicidio come alternativa. Eppure in Oriente i morti sul lavoro sono ben 2.310 solo nel 2015. E non perché caduti inavvertitamente da un’impalcatura. Semmai, il gesto è stato volontario.

L’ultimo triste simbolo dell’inquietante fenomeno è Matsuri Takahashi, giovane laureata che lavorava per l’agenzia pubblicitaria Dentsu, accumulando ben centocinque ore di straordinari in un mese. Punizione dei "super direttori" per un lavoro non svolto secondo gli standard, condito da mobbing e critiche anche sul piano personale. Una pressione psicologica che Matsuri non sfogava personalmente ma sull’ account Twitter, dove rivelava le precarie condizioni di salute.

Finchè alle quattro del mattino quel post: “Il mio corpo sta tremando. Morirò. Sono così stanca”. Infine, il salto dalla finestra del dormitorio aziendale. Un finale prevedibile per un’azienda il cui direttore, fino al 1950, diceva ai propri dipendenti di portare a termine il lavoro, "anche se questo vi uccide".

Una storia che sembra irreale per quanto è agghiacciante, eppure sono notizie all’ordine del giorno. Vicende che mettono il Giappone di fronte a una piaga sociale, che serpeggia nemmeno troppo silenziosamente. Le cause di morte per karoshi più comuni sono suicidio, infarto, colpo apoplettico o esaurimento nervoso. Come Yuhu Uendan: tredici chili persi in due mesi, quindici ore consecutive in ufficio, più straordinari e viaggi extra per un ammontare di duecentocinquanta ore lavorative al mese. Yuhu è stato trovato morto nel suo appartamento; sulla lavagnetta dove solitamente scriveva i suoi numerosi appuntamenti una frase: "Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato".

Il vero problema è il lavaggio del cervello subito dai dipendenti. La cultura del Sol Levante infatti porta a considerare lo straordinario come qualcosa di dovuto, una forma di lealtà verso l’azienda ripagata con una sicurezza economica difficile da abbandonare. Se la settimana lavorativa ammonta a quaranta ore, di frequente la maggioranza ne farà quarantanove, non riconosciute come straordinari per paura di valutazioni negative da parte dei superiori.

Le categorie più coinvolte? Gli impiegati nel settore della comunicazione, gli esperti di tecnologia e chi lavora nel campo dei trasporti. Il governo giapponese, dopo i numerosi casi di karoshi, si è finalmente attivato per modificare lo stile lavorativo. Risultato? I profitti sono saliti alle stelle, a dimostrare che il lavoro extra non equivale per forza a finanze in crescita. Un male che non solo rivela l’importanza di un equilibrio tra vita lavorativa e privata ma pone ancora una volta i riflettori su un valore inestimabile: il capitale umano. 

di Irene Caltabiano

 
 
 
 
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«Con il coding insegno alle ragazze il coraggio di essere imperfette»

«Impariamo a sorridere, essere cordiali, stare al sicuro, prendere bei voti» 

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«I ragazzi, d’altra parte, vengono educati a giocare, sporcarsi, rotolarsi e buttarsi a terra. E quando diventano adulti, sia che stiano negoziando un aumento di stipendio sia che stiano invitando qualcuno a uscire con loro, sono abituati ad affrontare i rischi uno dopo l’altro »
(Reshma Daujani, CEO di Girls who code)

Quanti danni hanno fatto le favole? Tutte quelle principesse sospiranti nell’attesa che arrivasse il principe azzurro a salvarle. Il coraggio: sostantivo maschile. L’attesa, la bellezza, la perfezione: nomi comuni femminili. Che sarebbe successo se nelle fiabe avessero insegnato alla principessa che poteva benissimo rompere da sola le mura della torre?

Girls who code, la rivincita delle ragazze

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Per fortuna, mattone per mattone, questa fortezza di prudenza sta crollando, alimentando nelle gentil dame la fiducia in loro stesse. Niente gemme o diademi, ma un computer, tanta perseveranza e voglia di imparare. Quando Reshma Saujani , avvocatessa e politica di origini indiane, ha dato vita a Girls who code, si è posta essenzialmente una domanda. Durante una campagna elettorale girava per le classi di informatica di New York  e si domandava :«Ma dove sono le ragazze?»

La questione non era certo che i ragazzi fossero più bravi. «Il problema è il deficit di coraggio» dice Reshma. «La stessa ragione per cui le donne sono poco rappresentate nei consigli di amministrazione, in politica, nelle forze dell’ordine».  

Per spiegare i motivi di tale situazione viene spesso portata ad esempio una ricerca compiuta negli anni '80 dalla psicologa Carol Dweck.  La dottoressa osservò il comportamento dei più piccoli quando veniva assegnato loro un compito difficile: le bambine si arrendevano prima, i bambini raddoppiavano gli sforzi per arrivare alla soluzione

Un’altra ricerca svolta da HP ha evidenziato come gli uomini si candidino per una posizione lavorativa anche solo con il 60% dei requisiti. Le ragazze invece si propongono solo se il loro profilo corrisponde al 100% con quello richiesto.

Perché la programmazione è perfetta per aumentare l’autostima

Reshma decide così di far qualcosa per cambiare la situazione. Nell’estate del 2012 riunisce venti donne, di differente estrazione sociale, in una sala conferenze  della compagnia  AppNexus, per insegnare loro i fondamenti del coding. «Se fai vedere a una donna come programmare,  lei andrà avanti per fare cose meravigliose». 

Così è nato Girls who code. La programmazione richiede tentativi continui per arrivare alla soluzione definitva. Una parentesi può segnare la differenza tra successo e fallimento. L'informatica esige perseveranza, capelli scompigliati, occhiaie, imperfezioni e coraggio di sbagliare.

Le ragazze sono molto brave a programmare, ma la corazza di dubbi e incertezze è dura da scalfire. «Ogni insegnante di Girls who code mi racconta la stessa storia. Nella prima settimana, quando le alunne si stanno approcciando al codice, c’è sempre una studentessa che la chiama da parte per dirle “non so che codice scrivere”

L’insegnante guarda il suo monitor e vede l’editor di testo totalmente bianco. Se non conoscesse a fondo la storia, potrebbe pensare che la studentessa ha passato gli ultimi 20 minuti a fissare lo schermo. Ma se preme il pulsante per annullare le modifiche un paio di volte si accorge che la ragazza ha scritto del codice per poi cancellarlo. Ci ha provato, ci è andata vicina, ma non ha azzeccato totalmente. Anziché mostrare all’insegnante i progressi fatti, preferisce non mostrare nulla. Perfezione o fallimento».

Il primo passo da fare dunque è trasformare quel "coraggioso" nel suo corrispettivo femminile. Insegnare alle principesse a sciogliere le trecce e rimboccarsi le maniche del vestito. Nel momento in cui ci riescono, i risultati sono straordinari . 

Per esempio, due studentesse delle superiori hanno creato un gioco intitolato “Tampon Run” (la corsa degli assorbenti) per rompere  il tabù delle mestruazioni nel mondo dei videogiochi. O la rifugiata siriana che ha voluto dimostrare l'amore per il suo nuovo Paese creando un’app per aiutare gli americani a votare.

«Ho bisogno che ognuno di voi dica ad ogni giovane donna che conosce – sorella, nipote, impiegata, collega – di essere a suo agio con le proprie imperfezioni, perché quando insegniamo loro ad essere imperfette e ad accettarlo, diamo vita a un movimento di giovani donne che costruiranno un mondo migliore per loro stesse e per ognuno di noi»

 

di Irene Caltabiano

 

 

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BlippAR: per capire chi sei basta uno smartphone

Sicurezza o minaccia?

BlippARLa privacy, questa sconosciuta. Ormai da tempo la salvaguardia della sfera personale non dipende solo dalla nostra accortezza, ma sta alla cortese sensibilità altrui. Le nuove tecnologie aprono scenari sempre più futuristici, in cui il sacrosanto diritto di farsi i fatti propri diventa un’utopia.

Si chiama BlippAR ed è un’app per il riconoscimento automatico dei volti.  Una sorta di Shazam in cui ad essere decifrate non sono le note musicali ma i nostri tratti facciali. Come funziona? È sufficiente puntare la fotocamera sul volto di uno sconosciuto oppure caricare una foto o lo screenshot di un video sulla piattaforma. In un battibaleno viene rivelata l’identità della persona interessata. Non solo: BlippAR, in realtà aumentata, propone tutta una serie di contenuti associati al soggetto in questione.

Il funzionamento è stato comprovato grazie al caricamento di immagini di personaggi famosi, ma presto chiunque lo desideri potrà creare il proprio identikit. Una volta ultimato l’inserimento dei dati apparirà, grazie all'augmented reality, un alone con tutte le informazioni. « L’obiettivo ora è creare un nuovo strumento sociale che sfrutta ciò che di più unico abbiamo» spiega Omar Tayeb, co-fondatore della Bbc.

Come considerare queste nuove app?

BlippAR

Sicuramente tecnologie simili a BlippAR  sono utili a organismi come le forze dell’ordine, che hanno migliorato metodi di ricerca e sistemi di sorveglianza. Tuttavia il rischio superamento del limite è sempre in agguato. Infatti, al di là di questi nobili scopi, le app sviluppate sono state utilizzate per motivi ludici. Rimane simbolico il caso di un gruppo di ragazzi russi ha utilizzato FindFace, corrispettivo russo di BlippAr, per riconoscere le vere identità di alcune pornostar.

Coscienza anche da parte dei BIG

Anche i colossi di Silicon Valley stanno virando sempre più verso l’integrazione tra tecnologia e biometrica ( tecnica che misura le caratteristiche fisiche). Ma anche loro hanno dovuto trovare un compromesso tra tecnologia ed etica. Ad esempio  Google voleva inserire nei suoi  nuovi Google Glass il riconoscimento facciale, ma, dopo numerose contestazioni, ha desistito. Anche Facebook, nel lontano 2011, fu ampiamente criticato per aver introdotto il tag automatico nelle foto. E se qualche bontempone facesse uno scherzo inserendo senza autorizzazione il profilo di un amico? Tayeb rassicura: «Il processo per creare un profilo richiede il coinvolgimento diretto dell’interessato. Il sistema è abbastanza intelligente da capire che a registrarsi è un’altra persona». 

C’è proprio da sperare che sia così. Nel frattempo gli sceneggiatori di Black Mirror avranno molto materiale su cui basare le loro storie…

di Irene Caltabiano

 

 
 
 

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