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La post-verità, come i media ci hanno reso irrimediabili creduloni

Al giorno d’oggi siamo tutti opinionisti.

Esperti di qualsiasi cosa, ci prendiamo la libertà di giudicare senza conoscere. Sapevate che il 69% di chi condivide post sulla propria bacheca non ne ha mai letto il contenuto? Basta un’immagine accattivante, un titolo che fa presa e via di click sul tasto share. Nessuno si prende la briga di verificare le fonti: così è sempre più difficile distinguere la verità da una bufala. I millenials, essendo nati insieme al pc, non dovrebbero avere l’occhio più abituato? Pare di no. 

L’esperimento

L’Università di Stanford, nella divisione di History education, ha somministrato schede con 56 verifiche agli studenti di 12 stati, dalle scuole medie all’università, con domande differenti in base all'età. Il test prevedeva diverse risposte aperte, per un totale di 7.804 pareri riscontrati. I quesiti nella gran parte riguardavano screenshot ripresi da Facebook, Twitter e altre piattaforme. 

Agli studenti delle medie hanno chiesto di identificare contenuti pubblicitari, agli alunni delle superiori di distinguere un profilo fake da uno reale e infine ai più grandi di comprendere in base a cosa un tweet potesse essere considerato attendibile. 

I primi, sebbene riconoscessero facilmente i contenuti pubblicitari espliciti, tentennavano maggiormente col native advertising, articoli sponsorizzati nella moderna forma dello storytelling pubblicitario. Alcuni infatti non conoscevano nemmeno cosa significasse lo sponsored content (se vuoi saperne di più, clicca qui).

I liceali hanno invece affrontato un test di tipo visivo. Qualche giorno prima era stata diffusa su Facebook l’immagine di un fiore deforme, sottotitolata "Le margherite di Fukushima”. 

La strana conformazione sembra fosse conseguenza delle radiazioni provenienti dalla centrale nucleare danneggiata durante lo tsunami nel 2011. 

Per la maggioranza delle "cavie" bastava la testimonianza visiva per dare credibilità al fenomeno. Il 40% ha abboccato senza batter ciglio, solo il 20% è risultato scettico. Gli universitari dal canto loro sono stati interrogati sulla validità di un tweet. Un contenuto che apparentemente sembrava un semplice sondaggio sul tema delle armi. Chi l’aveva diiffuso però era una società  specializzata nel settore, che poteva facilmente manipolare i dati a proprio favore.

Cosa significa questo? 

Nonostante siamo sempre pronti a dare il nostro parere, la maggior parte delle volte non siamo capaci di riconoscere la tipologia di un contenuto. Si commenta, si scrolla, e si passa alla filippica successiva.  Questo perche il fatto è meno importante dell’opinione.

Cos’è la post-verità

Una parola che è diventata sempre più diffusa negli ultimi tempi (utilizzata per la prima volta nel ’92 in un saggio del drammaturgo Steve Tesich), tanto da aggiudicarsi il titolo di parola dell’anno, secondo l'Oxford dictionary. Il prefisso post non si riferisce più a un evento successivo a un tempo o una situazione specifica.  

La definizione esatta è "relativa a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica del ricorso alle emozioni e alle credenze personali".

È più importante stare sul pezzo, dominati dall'emozione del momento, piuttosto che prendersi il (sacrosanto) tempo per verificare. 

Cosa succede? 

Un pubblico incapace di distinguere la menzogna dalla verità o, ancora peggio, non ne ha gli strumenti, è facilmente manipolabile e incline all’ignoranza. La verità perde importanza surclassata dal chiacchiericcio sterile e fine a sé stesso. 

 

di Irene Caltabiano

 

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Sapevate che in Giappone esiste ancora la pena di morte?

Jia ha ucciso.

 

Ha ucciso per amore e per vendetta. Ha ucciso perchè a volte sembra l'unica soluzione per far sentire la propria voce. Jia aveva un pezzo di terra che interessava ai poteri forti, un appezzamento dove il capo del villaggio voleva costruire un appartamento. Ma Jia in quella casa doveva sposarsi, viverci insieme alla moglie e chissà, a una futura famiglia. Tutto ciò non importava al prepotente di turno. Sotto consenso della famiglia, distrugge la casa e si prende ciò che vuole. Jia non può nulla a livello legale. Così perde la testa e si appella all'unica soluzione che il suo animo conosce in quel momento: distrugge la vita di chi ha distrutto la sua. Ma ogni azione ha un prezzo e perciò anche Jia viene presto condannato al destino del suo nemico.

 

Sembra il tema di una tragedia greca, invece è l'ultimo caso mediatico di pena di morte a Pechino. Jia Jinglong è stato giustiziato una settimana fa, aggiungendosi alle 2400 persone che hanno subito la stessa sorte. I giuristi giapponesi sono insorti, ma non contro la pena di morte in sè stessa; l'esecuzione violava gli standard del paese di usare la punizione con cautela. Troppe morti per impiccagione negli ultimi anni, bisogna lasciare al popolo il tempo di distrarsi.

 
Le esecuzioni? In segreto e sotto tortura

 

Il caso aveva scatenato gli attivisti di tutto il mondo ma non è servito a nulla. Il ragazzo è stato giustiziato l'11  novembre alle 10 del mattino, con la concessione di incontrare prima i familiari. La cosa più assurda è che ciò avviene nel migliore dei casi. Gran parte delle esecuzioni infatti, rimangono segrete e i parenti delle vittime vengono informati solo successivamente.

 

Nel braccio della morte, come se non bastasse, i detenuti sono spinti letteralmente a desiderare il loro ultimo respiro. Le torture prevedono la luce accesa 24 ore su 24, stare in piedi tutto il giorno potendosi coricare solo la notte, vivere in una cella di cinque metri quadrati, senza parlare con nessuno. Perchè infliggere ulteriore dolore se già è stata decisa la data della  dipartita?

 

Il caso Hakamada

 

Un passo avanti positivo è stato fatto grazie a un' altra vicenda, che ha smosso nuovamente l'opinione pubblica, portata sotto i rifletto anche dal regista Kim Sung Woong, che ne ha prodotto un documentario. Freedom Moon è la storia di Iwao Hakamada, ex pugile, che attende di essere condannato dal 1968 per il presunto omicidio del datore di lavoro e dei familiari.

Dopo lunghe e attente analisi,è risultato che la polizia avrebbe estorto la confessionedi colpevolezza con l'inganno. Ecco cosa ha detto  Hakamada:

 

«Non potevo far altro che accovacciarmi sul pavimento cercando di non defecare […] Durante quei momenti qualcuno ha messo il mio pollice su un tampone di inchiostro, lo ha premuto sotto una confessione scritta e mi ha ordinato: ‘scrivi qui il tuo nome’ mentre mi inveiva contro, mi prendeva a calci e mi stritolava il braccio»

Hakamada Iwao, dopo questo episodio, si è sempre proclamato innocente. Il 14 marzo del 2012 arriva la svolta. Viene rinvenuta una maglietta con tracce di sangue fino a quel momento non rintracciata sulla scena del delitto, che dà a Iwao nuove possibilità di essere scagionato. Il processo è ancora aperto, ma è stata l'occasione per rimettere in discussione tutto il sistema penitenziario giapponese.

In Giappone qualcosa si muove

Giappone e Stati Uniti sono gli unici paesi facenti parte dell'OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che mantengono come punizione la pena capitale. Con l'elezione di Donald Trump si teme addirittura una retrocessione del processo di abolizione. La Federazione degli avvocati giapponesi contrari alla pena di morte ne auspica la cancellazione entro il 2020, anno delle Olimpiadi, dal momento che è stato dimostrato che le esecuzioni non rappresentano un deterrente alla diminuizione di crimini. La posizione negativa, anche se ha visto ridursi il numero dei singoli, è abbracciata da sempre più partiti.

A esser messo in evidenza non solo il fatto che in Giappone il 99% dei processi penali si conclude con una condanna, molto spesso dettata dalla confessione che (come nel caso di Idawao) potrebbe essere estorta sotto tortura, ma riguarda anche i metodi inumani con cui vengono trattati i detenuti. L'alternativa è l'ergastolo, che richiederebbe comunque ulteriori modifiche legislative.

 

di Irene Caltabiano

 

 

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Vivere senza e-mail? Si può. Ecco chi è Johann Petersen, l'ultimo pastore postale

Johann Petersen sembra il personaggio di una favola.

Ogni giorno, sul trenino costruito con le proprie mani, porta posta, annunci, giornali agli abitanti dell’isola alluvionale di Langeneß. Il mezzo corre rapido sui binari costruiti tra la terra ferma e le Halligen Holland, arcipelago della Germania del Nord, che, una volta arrivata l’alta marea, sparisce.

Halligen infatti, deriva dalla parola celtica hal, sale, ad indicare che durante l’inverno l’acqua di mare sommerge le isole, lasciando in superficie solo le warften, colline artificiali dove sono state costruite le abitazioni. Qui il tempo sembra essersi fermato e la gente vive in completa armonia con la natura, senza bisogno di star dietro a mille notifiche e chat.

Gli abitanti di queste terre sperdute, dai bambini agli anziani adorano Johann, detto Hannie, e non solo perché rappresenta il tramite con il mondo esterno. «È  una persona molto aperta, disponibile e dall’umorismo irresisitibile»  afferma una simpatica vecchietta.

I Petersen vivono sulle Halligen da 800 anni. « Solo nel 1825 c’è stata un’inondazione che ha portato via tutto» dice Hannie, raccontando un evento probabilmente trasmesso oralmente da qualche antenato.

Storie sospese nel tempo, che ci fanno rivalutare le nostre vite assurde e frenetiche. Si può vivere anche senza essere iperconnessi? Sì, e forse si sta anche meglio. 

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di Irene Caltabiano

 

 

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