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Noi, nuovi Peter Pan tra smartphone e nevrosi

Guardatevi intorno.

Per le strade, nei bar o nei locali. Eccoci, noi eterni Peter Pan, tra una birra e un curriculum in mano, tra videogame e ricerca del nostro posto nel mondo, accusati di non crescere mai.

Ma è sempre conseguenza di una società che non investe sui giovani, che non fornisce i giusti compensi economici, che non dà possibilità di indipendenza?  Oppure il rimanere in quel limbo tra adolescenza ed età adulta sta diventando sempre più una scelta?

Le indagini Istat del 2008, quindi antecedenti all'esplosione della crisi, rilevavano che più del 70% delle persone di età compresa tra i 19 e i 39 anni viveva ancora con i genitori, nonostante gran parte di loro avesse un lavoro stabile e un’entrata sicura. Per alcuni questa situazione non rappresenta neppure un problema. C’è una sempre più diffusa tendenza a procrastinare le scelte di vita, illudendosi di averle sempre intatte di fronte a sé, come se vivessimo davvero in un'immaginaria isola che non c'è.

Un fenomeno sociale talmente ampio da meritarsi una definizione a sé: la generazione né-né. Alcuni non lavorano perché non trovano un’occupazione, altri, completamente sfiduciati, dichiarano di non cercarlo nemmeno.

Perché siamo di fronte a questo fenomeno?

Massimo Recalcati, psicanalista e saggista italiano, in un articolo per Repubblica dal titolo Dove sono finiti gli adulti? scriveva sulla crisi profonda dell'adulto e il rischio della sua "scomparsa".

«Se un adulto è qualcuno che prova ad assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole, non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale».

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Una mescolanza che viene attribuita anche alla moderna diffusione tecnologica, che sovrappone realtà e fantasia, virtualità e concretezza, spingendoci a rimanere bloccati nell’ "età di mezzo".

Se facciamo riferimento al legame tra tecnologia e immaturità, Johan Huizinga, storico olandese, aveva già predetto tutto ciò nel 1935, con il suo Crisi della civiltà: «L'uomo moderno può viaggiare in velivolo, parlare con un altro emisfero, procurarsi leccornie mettendo pochi soldi in un automatico. Preme un bottone, e la vita gli affluisce incontro. Può una tale vita renderlo emancipato? Al contrarioLa vita per lui è diventata un giocattolo. C’è da stupirsi che egli si comporti come un bambino?»

L’adulto irresponsabile è il bambino mancato?

Un’altra corrente attribuisce questa perdita di assunzione di responsabilità al fatto che oggi persino un figlio è programmabile, con termini sempre più in voga come procreazione responsabile e fecondazione assistita.

Una volontà di generare inversamente proporzionale all’attenzione educativa e sentimentale che poi viene effettivamente regalata al nascituro.

Uno spauracchio di affetto che nasconde il riversamento sui figli delle proprie aspettative e incompiutezze. A volte così tanto che il ragazzo/la ragazza a un tratto si rende conto di essere un prodotto delle volontà dei genitori, sempre più confuso su cosa vuole far davvero della propria vita.

Un meccanismo di proiezione che spesso porta a considerare il figlio come un piccolo adulto, buttato fin dai 6 anni a destreggiarsi fra mille attività e pressioni, senza avere tempo di essere quello che è: un bambino.

Meccanismo destinato a rivoltarglisi contro quando dall’infanzia passerà all’ età adulta, almeno sulla carta, manifestando la psicologia inversa, rifiutando le responsabilità e ricercando l’infanzia perduta. Siamo sicuri dunque che le origini del problema siano da ricercare in questa generazione? Non si deve mai fare di tutta l'erba un fascio, ma uno spunto di riflessione è sempre lecito.

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di Irene Caltabiano

 

 

 

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Cos’è l’Internet shame e perché tutti potremmo diventarne vittime

Sarà la pioggia o il freddo che comincia a serpeggiare, ma il pomeriggio domenicale è ormai diventato esclusiva di pigiama e serie tv. 

La più grande soddisfazione è quando riesci a trovare una narrazione ben sviluppata, che ti fa porre domande sui meccanismi della vita quotidiana. Una produzione come Black mirror.

Della serie avevamo già parlato, dal momento che è continuo spunto di analisi della società in cui viviamo. Tuttavia il terzo episodio della terza stagione è troppo inquietante e verosimile per non dedicargli un approfondimento a parte. Tratta infatti di un errore in cui tutti potremmo incorrere: essere superficiali nell’accettare le condizioni d’uso di un qualsiasi sito Internet. Alzi la mano chi si è mai letto l’intero papello contrattuale quando scarichiamo un antivirus o un semplice programmino (per la cronaca, neanche io lo faccio mai). L'episodio Zitto e balla  dello "Specchio nero" vi spingerà a ricredervi (se l’avete già visto o semplicemente non temete lo spoiler continuate nella lettura).

Cos’è l’Internet Shame

Zitto e balla ( in lingua originale Shut up and dance) fa leva sul suddetto meccanismo. Cioè? La vergogna di ciò che qualcuno potrebbe scoprire e rendere pubblico sfruttando in maniera impropria i nostri account sul web.  Pericolo tutt’altro che avulso dalla realtà, dal momento che nelle nostre tasche c’è un dispositivo che registra ogni nostra azione online, ci localizza, salva qualsiasi chat su qualche server lontano. Possiamo soltanto appellarci alla buona fede di chi emana determinati servizi. Ma se non fosse così? Se qualcuno sfruttasse i nostri "segreti virtuali" per ricattarci? Una trappola in cui Kenny, protagonista dell’episodio, rimane completamente invischiato.

Un giorno l’adolescente scarica un free antivirus per ripulire il computer da un malware, senza leggere le clausole di download. Dopo qualche minuto riceve un messaggio da numero sconosciuto. L'anonimo mittente dichiara di sapere cosa ha fatto, obbligandolo a compiere tutto ciò che gli dirà se non vuole che diffonda un video “intimo” ripreso dalla webcam del suo pc, su cui gli hacker hanno preso il controllo. Il ragazzo viene spinto a compiere azioni sempre più pericolose, facendolo precipitare in un incubo che dovrà condividere con altre persone, vittime degli stessi ignoti malfattori. Fino alla degenerazione totale di questo meccanismo.

Perché l’episodio funziona così bene

Shut up and dance mescola sapientemente un tema attuale come l’hackeraggio, il terrore che qualcuno rubi i nostri dati sensibili, a un altro meccanismo molto potente e tristemente attuale: la paura che qualcosa di estremamente privato venga diffuso su pubblica piazza. La diffusione è virtuale, le conseguenze reali.  E possono durare per anni, in un orrendo circolo vizioso che conduce ad emarginazione e isolamento. Quando non si arriva purtroppo, a qualche gesto definitivo.

Ma c’è di più. L’episodio ci pone di fronte a un inquietante quesito: fino a dove ci si può spingere pur di non finire sulla gogna mediatica? Black Mirror è un pugno allo stomaco che tutti dovremmo auto-proprinarci per imparare a limitare l’uso smodato della tecnologia. 

 

di Irene Caltabiano

 

 

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Chi sono Google Facebook e Twitter per decidere cosa è legale?

Facebook che censura foto storiche  perchè si vedono bambini nudi.

 

Google che non elimina link diffamatori. E infine Twitter che promuove post razzisti. Sembra di trovarsi ad una puntata de La sai l'ultima. Una cosa è certa, c'è poco da annoiarsi con social network e motori di ricerca; di casi legali che riguardano i colossi della tecnologia ne sentiamo ogni giorno. Ma possono i social arrogarsi il diritto di cancellare e neutralizzare affermazioni che, in altri casi, sarebbero veri e propri reati? O, al contrario, bloccare in maniera ingiustificata profili che il loro algoritmo ha considerato non conformi alle loro policy?

 

Il fatto

 

Un utente posta l'articolo dal titoloL'America è stata fondata dai bianchi, con tanto di bambini biondi e sorridenti in mezzo al grano. Twitter ha autorizzato la promozione di un post del genere. O meglio, lo spider automatico di Twitter. In poco tempo hanno cominciato a fioccare le reazioni scioccate di altri utenti finchè il CEO, Jack Dorsey, non si è preso in carico il tremendo errore, scusandosi, cancellando il post e eliminando il colpevole dalla piattaforma. Una figura barbina dopo l'annuncio comune da parte dei big della Silicon sul rafforzamento delle restrizioni sui siti di bufale e il controllo sul politically correct.

 

La Silicon Valley fa il bello e il cattivo tempo

 

È molto difficile raccapezzarsi in questioni che sono al limite tra netiquette e illegalità, panni da lavare in famiglia o situazioni che avrebbero bisogno di giudici terzi. Rimane emblematico il caso Google Spain, in cui un utente chiese di eliminare alcuni contenuti diffamatori sul suo conto facendo ricorso al Garante per la protezione dei dati personali, organo amministrativo esterno e fisicamente esistente.

 

La maggior parte delle volte però succedono ingiustizie per cui numerosi utenti rimangono vittima degli umori di Mr. Zuckerberg o di Mr. Pichai, senza nemmeno troppa possibilità di replica. Risulta assurdo che questioni importanti come la chiusura di account siano affidate ad algoritmi che guardano alla singola parola senza analizzare il contesto, con poco intervento umano che distingua e tra una foto di nudo come contenuto sessualmente esplicito e una inserita, per esempio, come denuncia sulla mercificazione femminile?

 

Che fare?

 

Si dovrebbe limitare il potere delle grandi aziende tecnologiche, che sembrano ormai deus ex machina, al di sopra della legislazione stessa, ancora non sufficientemente ferrata nel campo. Magari lavondo sulla creazione di figure intermedie e più diffuse sul territorio, organi imparziali e indipendenti da qualsiasi tipo di interesse economico, grandi conoscitori sia del web che del diritto. Sennò potremmo svegliarci fra vent’anni consapevoli che la giustizia è in mano agli interessi dei big della tecnologia, in un Grande Fratello gestito dai deliri di onnipotenza di pochi privilegiati.

 

 

 

 

di Irene Caltabiano

 

 

 

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