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La lettera di Marino Peiretti? Lo specchio dei nostri tempi

«Vorrei informarvi che come ogni anno mio figlio non ha svolto i compiti estivi».

Non per cattiva volontà né per dimenticanza, ma per scelta. La lettera di Marino Peiretti, signore di Varese papà di Mattia, sta facendo il giro del web. Cosa sostiene? Che fare i compiti delle vacanze sia roba per sfigati obsoleti (sopra, il testo completo).

A prima vista, vieni deliziato da immagini stile film americano del papà che scala le montagne insieme il figlio e, giunti in cima, gli dà pacche sulla spalla dicendo « Bravo il mio ometto».Potrebbe sembrare una normale giustificazione alle inadempienze del figlio. Aspetti quasi che prima o poi dica. « Guardi eravamo alle Maldive e all’aeroporto hanno perso la valigia con i libri per studiare. Sono mortificato ». Ma il signor Peiretti continua: «I compiti estivi sono deleteri. Voi avete nove mesi per dargli nozioni e cultura, io tre mesi per insegnargli a vivere».

Applausi, pioggia di like, invasione di condivisioni. E il post diventa subito virale. Ebbene, non ci vedo niente di diverso dai soliti discorsi populisti che aizzano le folle. Facile, dall’alto della propria scrivania, criticare il lavoro altrui (soprattutto, a voler essere maligni, dal pulpito di un signore in cassa integrazione). Dire che i compiti sono troppi e arrogarsi il diritto di non farli. Anzi nemmeno. Dire al proprio figlio di fregarsene perché tanto non servono a nulla. Che la vita vera è un’altra.

Ok, a tutti non andava a genio dopo ferragosto rimettersi sui  libri e riprendere versioni o tabelline. Peccato che non si trattasse di “imparare roba”, ma di esercitarsi a capire che c’è un tempo per rilassarsi e giocare e uno per studiare. E quella che il signor Peiretti chiama nozioni sono, mattoncino per mattoncino, le fondamenta dell’educazione.

Mia mamma faceva l’insegnante. E posso garantire che svolgere questa professione non significa certo ripassare  quattro cose e assegnare da leggere il primo capitolo. È una continua ricerca di equilibrio tra i bisogni del singolo e del gruppo, un lavoro a metà fra l’educatore, lo psicologo e il leader, se fatto bene.

Mi sembra irrispettoso calpestare senza troppi problemi l’autorità scolastica. In pratica, poveri i fessi che ancora  si scervellano a leggere quei libri così noiosi, che perdono i neuroni sui problemi di matematica anche d'estate. Sono concetti che in futuro non serviranno e io sono quello bravo che l’ha capito e perciò devo diffondere il verbo.

Lo stesso atteggiamento qualunquista e sprezzante che mi porta a non pagare un biglietto sull’autobus o a buttare una carta per terra. Si discosta dalle mie esigenze, quindi perché dovrei prendermi la briga di raggiungere il cestino più vicino? Peraltro, il soggetto in questione cerca di avvalorare la sua teoria sostenendo che ci sono fior fiore di esperti e psicologi che la pensano esattamente come lui. Nomi? Cognomi? Ah giusto, nel regno in cui una frase di Oscar Wilde diventa proprietà di Caio, tutto è concesso.

Il climax viene però raggiunto quando il suddetto afferma che non ha mai visto professionisti seri portarsi il lavoro in vacanza. Magari perché, prima di giungere alle agognate DUE settimane, non certo tre mesi, si sono ammazzati di lavoro? Evidentemente il piccolo Mattia è già un giovane imprenditore, che dopo mesi di calcoli economici, deve riposare la sua materia grigia stanca. 

Un post che voleva essere controcorrente ma che è, al 100%, figlio dei nostri tempi. Un tripudio autocelebrativo, volto solo a pomparsi l’ego di like. Il signor Peiretti si è mica chiesto cosa sta insegnando a Mattia? Forse che è meglio rifugiarsi dietro lo schermo di un pc anzichè parlare faccia a faccia con gli insegnanti, se si ha qualche dubbio rispetto al programma didattico. 

In tutto questo quadretto chi ha chiesto il parere di Mattia? Magari a lui sarebbe piaciuto stare accoccolato sul divano a leggere Il gattopardo

 

di Irene Caltabiano

 

 

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«Non avere niente, ma essere molto». Come Heidemarie vive senza soldi da vent'anni

«Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno. Una casa, due figli. Ma volevo fare un esperimento. Molta gente alla mia età ama stare seduta nel proprio giardino. Io volevo viaggiare»

 

 

 

 

I soldi sono tutto nella nostra società. Si giudica ogni persona in base al conto in banca. Sui media, in politica, nella vita di tutti i giorni. Ma c'è chi non ci sta. Individui che, stufi di vedere attorno a sé persone che vivono da infelici solo per seguire determinati schemi sociali, compiono scelte radicali.Per alcuni sono fuori di testa, per altri guru e maestri di vita. Ma la cosa più bella è che a loro non importa il giudizio esteriore. Ė una scelta che hanno fatto per sé stessi, senza cercare un seguito che è arrivato da sè.

Ammetto di avere avuto anche io qualche perplessità quando sono venuta a conoscenza del documentario Vivere senza soldi, storia di Heidemarie Schmwermer, sessantanovenne tedesca che dal 1996 non tocca più denaro. Nel 1994 aveva fondato la prima associazione di baratto in Germania. Due anni dopo, forse anche a causa del divorzio, decide di cambiare radicalmente il suo stile di vita. Lascia lo studio di psicoterapia, recentemente aperto dopo una vita come insegnante, disdice l'affitto, si libera di tutto ciò che teneva in casa per mettere in atto un'esprimento che sarebbe dovuto durare solo un anno. Ne sono passati venti.

Inizialmente Heidemarie va a vivere da amici e conoscenti, offrendo il proprio aiuto in casa. Mangia frutta e verdura coltivata nei loro orti e aspetta la sera per fare un giro di frutterie e supermercati, chiedendo in regalo tutti i prodotti prossimi alla scadenza e quindi non più vendibili. Per tutto il resto, si basa molto sullo scambio che si compie ogni fine settimana alla centrale Dai e prendi , da lei si stessa fondata a Dortmund. Secondo lo stesso principio, fa la babysitter.

Pensava di rimanere in sordina, un caso isolato. Invece la sua storia ha fatto il giro del mondo e la sig.ra Schmwermer è stata invitata a talk show, trasmissioni radiofoniche, incontri con le scuole. La vicenda è persino diventata un libro, omonimo del doumentario, che ha vinto il premio Culture di pace a Firenze nel 2008. I ricavati delle pubblicazione e la pensione da insegnante li dà in beneficienza.

«Non ho niente contro il denaro» afferma Heidemarie durante un'intervista del 2006. «Mi dispiace vedere il modo in cui viene utilizzato e considerato. Ormai é più di un semplice valore di scambio, è diventato il modo per definire il valore di ognuno. Insomma, chi ha tanti soldi viene considerato un persona di valore».

Non è intenzione di questa signora farci la morale. La decisione di cambiare vita è partita mettendo in discussione la SUA esistenza. Tuttavia, anche se una società che vive esclusivamente di scambio sembra altamente improbabile, persone come Heidemarie sono un fulmine a ciel sereno. Le finestre di azzurro quando pensiamo alle zone grigie della vita quotidiana, quando siamo sopraffatti dall'ansia di arrivare a fine mese, la scintilla che ci spinge a pensare che un'alternativa è possibile. Riscoprendo la speranza di uno stile di vita migliore che rifugga dalla società mercificata, che riporti la centralità sulla ricchezza più grande che abbiamo: noi stessi e gli altri. Forse, nonostante le critiche che le si possono addurre, ha semplicemente fatto ciò che la maggioranza non ha il coraggio di osare.

«Dopo tanti anni, mi sento più ricca di prima. Posso sopportare che la gente creda che sia stupida o matta, ma quando trovo qualcuno che mi capisce, sono veramente felice».

 

di Irene Caltabiano

 

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L'apertura mentale passa anche dalle emoticon?

In principio erano le pittografie.
 

Ovvero rappresentare la cosa vista e non udita. In un certo senso, stiamo regredendo a qualcosa di simile. Le emoji, (evoluzioni delle emoticon, le faccette che sui 3310 riproducevamo con la punteggiatura) rappresentano il linguaggio universale moderno? O sono destinate a creare ulteriore confusione?

È un dato di fatto che, nonostante siano rinchiuse nello spazio limitato dei nostri smartphone, le emoji stiano diventando la cartina tornasole del tessuto sociale. Basta pensare alle faccine multietniche e gay friendly recentemente introdotte da Apple.

La nuova frontiera del cambiamento riguarda l'introduzione di emoticon che rappresentino diverse culture religiose. La richiesta arriva da Rayouf Alhumedi, ragazza di quindici anni di origine saudite. Vive a Berlino e indossa lo hijab, un foulard che copre capelli, orecchie e nuca, lasciando visibile solo il volto. La copertura minima che la tradizione musulmana richiede alle donne. Come tutti i suoi coetanei, Rayouf usa Whatsapp, ma, rovistando tra le faccine disponibili, non ne ha trovato neanche una che la rappresentasse.

Ad inizio estate la ragazza ha perciò deciso di fare esplicita richiesta al servizio clienti di Apple per inserire una nuova emoticon con il velo, senza ottenere risposta. Poco tempo dopo, raccogliendo informazioni su Internet, è riuscita ad avanzare la proposta a Unicode Consortium, organizzazione che ha il compito di mantenere una scrittura comune nel campo dei caratteri informatici.

Non era la prima volta che veniva avanzata una richiesta simile. Rubab Haman, musulmano che vive in Australia, aveva lanciato qualche mese fa una petizione su Change. Org facendo esattamente la stessa richiesta.  Ad oggi mancano solo 300 firme per raggiungere i 2500 sostenitori richiesti.

Nascita di un' emoticon
 

Che succede prima che un emoticon venga approvata ufficialmente? La procedura può durare anni. Elementi fondamentali per introdurre un nuovo simbolo sono la valutazione su significato, utilizzo e realizzazione grafica. L'Unicode Consortium è una società no profit, composta dai rappresentanti delle maggiori compagnie tecnologiche e digitali: Apple, Facebook, Google, Microsoft , Yahoo, Huawei, Oracle, Adobe, Ibm. Vengono approvate solo 60-70 emoticon l'anno.

Comparire fra le emoticon significa essere dunque “socialmente legittimati”? Sicuramente non è l'unico elemento da considerare. Chissà se la visione costante di certe categorie culturali, anche se rappresentate solo graficamente, può aiutarci ad una maggiore accettazione della diversità. Tuttavia è indubbio che le emoticon siano sempre più uno specchio dei tempi. 

Di recente un gruppo di dipendenti Google hanno proposto una nuova serie dedicata alla parità di genere sul lavoro. Più attuali di cosí...

di Irene Caltabiano

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