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Non è un Paese per divorzi

"Il matrimonio è la causa principale del divorzio", diceva Groucho Marx. 

 

Nell’era del crowdfunding, persino lasciarsi diventa social. Se sposarsi costa una fortuna, pagare l’addio definitivo al proprio partner ancora di più. Perciò persino la rete può farsi solidale nei confronti di chi ha scelto, a malincuore o meno, la strada del divorzio.

La piattaforma americana PlumFund, idea di due avvocati americani, apre le porte al finanziamento degli eventi, dal baby shower al funerale.  In home page, un’area apposita di divorce registry, con ben 269 richieste di aiuto.

Come funziona?
 
Chi ha scelto di mettere un punto alla relazione sciorina pubblicamente gli anni di scarpe sul divano, di cattiva cucina o di litigi isterici. Infine, chiede umilmente attenzione agli sconosciuti per racimolare la somma che lo/ la renderà nuovamente un uomo/ una donna libera.
 

Le richieste di finanziamento non riguardano solo le spese legali. C’è anche chi, con quei soldi, vuole pagarsi l’appartamento dove si ritirerà lontano dalla vita matrimoniale.

Giusto o sbagliato?
 

L’idea non è del tutto condannabile. Ad esempio in Italia, l’ago della bilancia pende ancora molto a favore delle madri,  lasciando i padri in gravi difficoltà economiche, impossibilitati a ricostruirsi una vita.

Tuttavia, chi si prenderebbe la responsabilità morale di pagare un divorzio? Forse solo chi l’ha già affrontato. E sta ancora racimolando denaro per sè. 

 

di IRENE CALTABIANO

 

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Influencer? Chiedi chi erano i critici

«E qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta, vada via...»
«E lei, allora, professore, perché rimane?»
«Come perché?!? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere!» ( La meglio gioventù)
 

Non è più tempo di giornalisti di spettacolo e critici cinematografici. Forse gli ultimi che possano fregiarsi di tale titolo professionale hanno tra i sessanta e i settant’anni. Oggi chi detta le tendenze, chi regala la sua “autorevole” opinione su un prodotto, dal cosmetico al film, sono gli influencer.

Figure che, per qualche coincidenza del destino, sono emerse dal calderone-web guadagnando un certo seguito. Alcuni per reale bravura comunicativa, altri per motivi sconosciuti. Sta di fatto che tale espressione sta assumendo sempre più valenza di professione, rientrante a pieno titolo tra le nuove nate di Internet.

Cosa fanno gli influencer?
 

Danno la loro opinione su eventi, prodotti, film, red carpet, première cinematografiche, fenomeni sociali. Curiosi di tutto, specializzati in niente, sfruttano i loro canali social come effetto domino, coinvolgendo una larga fetta di pubblico più giovane, followers che pendono letteralmente dalle loro labbra. La maggioranza delle aziende sfruttano queste figure perché anello di congiunzione tra i “dinosauri” sopracitati e i millenials, adolescenti ignari di cosa sia l’autorità intellettuale, nutriti a pane e YouTube.

Dove sta il problema?
 

L’influenza non è data da una reale capacità  di analisi, che, nel caso del critico-dinosauro deriva da anni di studio e specializzazioni. L’autorità gli viene attribuita per il semplice fatto che parlano lo stesso linguaggio, come esseri di un pianeta da cui gli ultra-cinquantenni sono automaticamente esclusi. Perciò passano il testimone a questi esperti delle nuove tecnologie che imparano sul campo, senza timoni, freni o sintassi. Relegando il loro forbito parlare al semplice otium letterarium.

Dal punto di vista del marketing la strategia è vincente. Con un minimo di spesa, si ottiene il massimo del profitto. I dati dimostrano infatti che le visualizzazioni di questi video superano di gran lunga quelle di approfonditi servizi giornalistici o di un lungo editoriale. Ma può un ragazzino, anche solo come anni di esperienza, avere la stessa valenza di una figura altamente qualificata?

Inutile fare i nostalgici. Credo si debba semplicemente accettare il fenomeno come dato di fatto. Potranno giornalisti e critici, più inquadrati e dediti allo studio, adeguarsi alla frenesia dei nuovi linguaggi? Si, ma c’è il rischio di scadere nel ridicolo. 

 

di IRENE CALTABIANO

 

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Storie in coda, mai più file noiose

Pokèmon Go, Whatsapp, Candy Crush?
 

Sostituiteli con un buon racconto. Storie in coda è la nuova app di Follie Letterarie, casa editrice di San Marino, che da sempre si occupa di scrittori emergenti.

Secondo il motto “ Se non puoi sconfiggere il nemico, alleati con lui”, l’app (sull’onda lunga del distributore automatico di racconti alle fermate dei mezzi pubblici di Grenoble)  regala racconti. Di vario genere e lunghezza, queste piccole perle letterarie renderanno attese e tempi morti più interessanti.

Si può scegliere fra horror, noir, storie d’amore e surreali. Le storie sono raccolte in due sezioni: Racconti in piedi e Racconti in Relax. Nella prima i testi non superano le 700 parole e possono essere letti rapidamente. Se invece la vostra attesa è più lunga c’è la seconda opzione,da assaporare comodamente quando l’attesa è più lunga.

Per ogni racconto, la pagina dedicata all’autore, con foto e biografia. Gli scrittori, selezionati dalla casa editrice, vengono da tutta Italia, hanno curriculum variegati. Alcuni sono esordienti e altri noma nessun autore famoso è in repertorio, al momento.  All’interno dell’app si possono scorrere anche i post del Blog Follie Letterarie e le pagine social della casa editrice.  L’app è scaricabile gratuitamente su Android e IOS. Quando si avrà un’idea più chiara della risposta del pubblico, si cercheranno sistemi di monetizzazione.

La casa editrice Follie Letterarie abbaccia l’idea di sfruttare il digitale, senza demonizzarlo.«Lo smartphone non è un nemico, tutto dipende dall’utilizzo che ne facciamo. Basta trovare il modo per metterlo al servizio della letteratura».

 

di IRENE CALTABIANO

 

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