«O’ capitano, mio capitano. Cogliete l’attimo ragazzi, rendete la vostra vita straordinaria!»
Le leggendarie parole del professor Keating nell’Attimo fuggente, sono state ispirazione per miliardi di studenti. E laSOS, Scuola Open Source, fa tornare alla mente la setta dei poeti estinti. Una scuola-laboratorio, che supera i limiti della didattica classica, unisce innovazione e tecnologia. Uno spazio di brain storming e insegnamento gratuito per reinventare il concetto di formazione.
Appassionati di tecnologia, formazione, hacker, inventori. Punto in comune? Hanno massimo trent’anni. I giovani sognatori hanno realizzato un circolo intellettuale 2.0 nel cuore di Bari. Un polo di eccellenze scientifiche che impartirà lezioni di robotica, comunicazione, hackering, maniufattura digitale a tutte le ore del giorno e della notte. Destinatari? Chiunque abbia voglia di imparare. Dai millenials ai pensionati che hanno ancora un sogno nel cassetto.
« All’inizio del ‘900 la nascita del design ha portato alla creazione del Bahuaus unendo architetti, artisiti e istituti tecnici » affermanoAlessandro Tartaglia e Alessandro Balena, entrambi esperti di design. Stesso nome, uguale passione per il loro progetto. «Vogliamo offrire didattica divulgativa, dai corsi di programmazione a quelli per progetti di ricerca esterna, a servizi e strumenti che possano diventare spin-off autonomi» affermano nell’intervista rilasciata a Startup Italia.
Utopia? Nient’affatto. Esperimenti del genere sono già stati realizzati con l’XYLAB, scuola per “pirati dell’informazione” e persino Il college de France di Parigi prevede 26 ore di lezioni integrative di seminari e workshop per integrare continuamente l’insegnamento, senza fossilizzarsi in una didattica sempre uguale. Inoltre il progetto ha vinto il premio Chefare,finanziamento di 50.000 euro per i progetti riguardanti cultura e innovazione.
Chi pagherà gli strumenti di didattica?
L’obiettivo degli startupper è convincere le aziende a investire nella formazione; il costo sostenuto va in detrazione sulle dichiarazioni fiscali. Destinatari potrebbero essere anche gli amministratori pubblici e le università. « I contatti non mancano. Investire denaro in un solo settore oggi è pura follia. Il discorso deve essere molto più ampio. Vogliamo dare a realtà che hanno capacità economica un interlocutore che insegni innovazione di processo e tecnologico. Perché in Italia succeda qualcosa va fatto un lavoro di networking vero».
Scovarlo ed ucciderlo, proprio come in un videogioco. Differenza? I nemici sono in carne e ossa. Ma gli effetti sonori sono ovattati e un eco di urla lontane attutisce la consapevolezza dei propri gesti. Anche le recenti immagini dell'attentato di Nizza hanno dell' incredulo. Una strage compiuta con la freddezza di un gamer che manovra un joystick.
Non c’è più confine tra playstation e macchine da guerra. I nuovi soldati sono esperti di Xbox e fanno pratica su Call of duty. Centrano gli obiettivi e rimangono ad osservare il frutto del loro operato. Ma le figurine sullo schermo sono talmente piccole da non sembrare umane, il sangue diventa migliaia di pixel rossi.
Un tempo fare il soldato aveva qualcosa di nobile: durante la battaglia si affrontava il nemico faccia a faccia, e ciascun combattente aveva il 50% di possibilità di essere ucciso. Ora “spade e lance” si direzionano rimanendo comodamente seduti in poltrona, sorseggiando caffè.
Recentemente il cinema ha dato spazio alla rappresentazione della guerra silenziosa, fenomeno ormai diffuso ma ancora troppo poco conosciuto. Film come Good Kill (di Andrew Niccol, regista di The Truman show), ambientato in un alienante deserto del Nevada,in cui Ethan Hawke, capitano dell’esercito, passa le sue giornate a far fuori il nemico con un click. Ma non riesce sempre a colpire esclusivamente l’obiettivo. Una volta sganciato il missile, passano almeno dieci secondi prima dell’impatto. E in quell’arco di tempo non si ha più margine di manovra, anche se nell’area sono presenti donne, bambini o altri civili. Stesso tema per Il diritto di uccidere, con Helen Mirren, che riapre nuovamente lo scenario su una guerra che ha più conseguenze psicologiche che fisiche.
I nuovi reduci infatti non hanno bisogno di crocerossine, ma piuttosto di uno psicologo. I soldati vengono spesso assunti a contratto. Una volta terminato il loro compito, rimangono abbandonati a solitudine e sensi di colpa. Molti si danno all’alcol e soffrono di depressione ed esaurimento nervoso. Perché, anche se il drone agisce a migliaia di chilometri, le conseguenze a livello psichico si avvertono.
Quale effetto sull’opinione pubblica?
La guerra digitale è da inserire in un discorso più ampio. La guerra e le sue conseguenze erano fisicamente visibile. Una volta si scendeva in piazza per esprimere il proprio sdegno,si aprivano dibattiti tra intellettuali, si cercava di capire. In poche parole: ci si metteva la faccia.
Oggi sui social siamo tutti opinionisti e la lotta per i propri ideali si svolge a colpi di insulti, comodamente nascosti dietro al proprio avatar. Per questo credo che la guerra con i droni rientri in un fenomeno che sta colpendo l’intera società: la disumanizzazione e la perdita di identità, un anonimato comodo quanto sterile, in cui gli agnelli diventano i leoni.
Una realtà che ormai si muove sul piano virtuale, rinchiusi in una scatola asettica in cui si ha solol’impressione di influire concretamente. Una realtà ovattata, priva di responsabilità. Più comoda ma meno vera.
Obiettivo? Eliminare il cattivo.
Scovarlo ed ucciderlo, proprio come in un videogioco. Differenza? I nemici sono in carne e ossa. Ma gli effetti sonori sono ovattati e un eco di urla lontane attutisce la consapevolezza dei propri gesti. Anche le recenti immagini dell'attentato di Nizza hanno dell' incredulo. Una strage compiuta con la freddezza di un gamer che manovra un joystick.
Non c’è più confine tra playstation e macchine da guerra. I nuovi soldati sono esperti di Xbox e fanno pratica su Call of duty. Centrano gli obiettivi e rimangono ad osservare il frutto del loro operato. Ma le figurine sullo schermo sono talmente piccole da non sembrare umane, il sangue diventa migliaia di pixel rossi.
Un tempo fare il soldato aveva qualcosa di nobile: durante la battaglia si affrontava il nemico faccia a faccia, e ciascun combattente aveva il 50% di possibilità di essere ucciso. Ora “spade e lance” si direzionano rimanendo comodamente seduti in poltrona, sorseggiando caffè.
Recentemente il cinema ha dato spazio alla rappresentazione della guerra silenziosa, fenomeno ormai diffuso ma ancora troppo poco conosciuto. Film come Good Kill (di Andrew Niccol, regista di The Truman show), ambientato in un alienante deserto del Nevada,in cui Ethan Hawke, capitano dell’esercito, passa le sue giornate a far fuori il nemico con un click. Ma non riesce sempre a colpire esclusivamente l’obiettivo. Una volta sganciato il missile, passano almeno dieci secondi prima dell’impatto. E in quell’arco di tempo non si ha più margine di manovra, anche se nell’area sono presenti donne, bambini o altri civili. Stesso tema per Il diritto di uccidere, con Helen Mirren, che riapre nuovamente lo scenario su una guerra che ha più conseguenze psicologiche che fisiche.
I nuovi reduci infatti non hanno bisogno di crocerossine, ma piuttosto di uno psicologo. I soldati vengono spesso assunti a contratto. Una volta terminato il loro compito, rimangono abbandonati a solitudine e sensi di colpa. Molti si danno all’alcol e soffrono di depressione ed esaurimento nervoso. Perché, anche se il drone agisce a migliaia di chilometri, le conseguenze a livello psichico si avvertono.
Quale effetto sull’opinione pubblica?
La guerra digitale è da inserire in un discorso più ampio. La guerra e le sue conseguenze erano fisicamente visibile. Una volta si scendeva in piazza per esprimere il proprio sdegno,si aprivano dibattiti tra intellettuali, si cercava di capire. In poche parole: ci si metteva la faccia.
Oggi sui social siamo tutti opinionisti e la lotta per i propri ideali si svolge a colpi di insulti, comodamente nascosti dietro al proprio avatar. Per questo credo che la guerra con i droni rientri in un fenomeno che sta colpendo l’intera società: la disumanizzazione e la perdita di identità, un anonimato comodo quanto sterile, in cui gli agnelli diventano i leoni.
Una realtà che ormai si muove sul piano virtuale, rinchiusi in una scatola asettica in cui si ha solol’impressione di influire concretamente. Una realtà ovattata, priva di responsabilità. Più comoda ma meno vera.
Obiettivo? Eliminare il cattivo.
Scovarlo ed ucciderlo, come in un videogioco. Differenza? I nemici sono in carne e ossa. Ma gli effetti sonori sono ovattati e un eco di urla lontane attutisce la consapevolezza dei gesti. Stragi compiute con la freddezza di un gamer che manovra un joystick.
Non c’è più confine tra playstation e armi da guerra. I nuovi soldati non fanno addestramento, ma sono esperti di Xbox e acquisiscono esperienza su Call of duty. Centrano gli obiettivi e rimangono ad osservare con distacco il frutto del loro operato. Ma le figurine sullo schermo sono talmente piccole da non sembrare umane, il sangue si trasforma in migliaia di pixel rossi.
Un tempo essere soldati aveva anche qualcosa di nobile:durante la battaglia si affrontava il nemico corpo a corpo, e ciascun combattente aveva il 50% di possibilità di essere ucciso. Ora “spade e lance” si direzionano rimanendo comodamente seduti in poltrona.
Recentemente il cinema ha dato spazio alla rappresentazione della "guerra silenziosa", agita dai robot, fenomeno ormai diffuso ma troppo poco conosciuto. Film comeGood Kill(di Andrew Niccol, regista di The Truman show), ambientato in un alienante deserto del Nevada: Ethan Hawke, capitano dell’esercito, passa le sue giornate a far fuori il nemico con un click. Ma non riesce sempre a colpire esclusivamente l’obiettivo prestabilito. Una volta sganciato il missile, passano almeno dieci secondi prima dell’impatto e in quell’arco di tempo non si ha più margine di manovra. Anche se nell’area sono presenti donne, bambini o altri civili. Stesso tema per Il diritto di uccidere di Gavin Hood, che riapre nuovamente lo scenario su una guerra che ha più conseguenze psicologiche che fisiche su chi la combatte.
I nuovi reduci non hanno bisogno di crocerossine, ma piuttosto di uno psicologo. I soldati vengono spesso assunti a contratto; una volta terminato il loro compito, rimangono abbandonati a solitudine e sensi di colpa. Molti si danno all’alcol e soffrono di depressione ed esaurimento nervoso. Perché, anche se il drone agisce a migliaia di chilometri, le conseguenze a livello psichico si avvertono.
Quale effetto sull’opinione pubblica?
La guerra coi droni è da inserire in un discorso più ampio. Una volta lo scontro e le sue conseguenze erano fisicamente visibili. Si scendeva in piazza per esprimere il proprio sdegno, si aprivano dibattiti tra intellettuali, si cercava di capire. In poche parole: ci si metteva la faccia.
Oggi sui social ogni cosa è filtrata da uno schermo, siamo tutti opinionisti e la lotta per i propri ideali si svolge a colpi di insulti, comodamente nascosti dietro al proprio avatar. Per questo credo che la guerra con i droni rientri in un fenomeno che sta colpendo l’intera società: la disumanizzazione e la perdita di identità, un anonimato comodo quanto sterile, in cui gli agnelli diventano leoni. E chi agisce davvero non assume molta rilevanza perchè la presenza sul web è indirettamente proporzionale ai gesti concreti.
Una realtà che, paradossalmente, si muove sul piano virtuale, rinchiusa in una scatola asettica in cui si ha solo l’impressione di influire concretamente. Ovattata, priva di responsabilità. Più comoda ma meno vera.
I mostriciattoli erano già stati un successo durante gli anni '90. Nati dalla mente diSatoshi Tajiri, giapponese collezionista di insetti e appassionato di videogiochi, cominciano a popolare gli schermi di Game Boy e non solo. Approdano in tv, al cinema,vengono commercializzati in qualsiasi maniera.
Cosa fanno gli originali esserini? Combattono tra loro, non sanguinano e sono immortali. Semplicemente, quando vengono sconfitti, diventano inutilizzabili nelle battaglie.
Un successo durato vent'anni
Sarà questo il segreto del loro successo? Questa sorta di concezione pacifista dello scontro? Chissà. Fatto sta che mancava davvero l'ennesimo strumento che ci facesse vedere queste creaturine ovunque. Ulteriore scusa per tenere occhi e mani incollate allo smartphone.
Pokèmon Go, l'app sviluppata da Niantic Labs, mescola digitale ed analogico. Grazie al GPS lo smartphone traccia la nostra posizione in tempo reale. A questo punto la mappa di gioco ricalca, strada per strada, la città in cui ci troviamo. Ogni volta che c'è un Pokèmon nelle vicinanze, il cellulare vibra; basterà così identificare la posizione del mostriciattolo (grazie alla realtà aumentata, che sovrappone il virtuale al reale) e catturarli. Più se ne collezionano, più si ha possibilità di sfidare i “grandi maestri”, sparsi anch'essi per il mondo. Si deve però essere piuttosto svelti perchè il Pokemòn potrebbe scappare.
I luoghi della nostra quotidianità ne sono già stati invasi e, nonostante l'app sia apparsa su Ios e Android da appena poche settimane, ha già scatenato i meccanismi dell'idiozia umana. In Giappone, Australia e Stati Uniti è arrivata il 6 Luglio: 50mila download in meno di 48 ore e installato sul 5,6% degli smartphone Android. E se si avessero altri dubbi sulla diffusione del gioco l'8 Luglio l'applicazione è stata utilizzata per una media di 43 minuti e 23 secondi. Più di Whatsapp, Tinder e Snapchat messe insieme.
Un Pokèmon e un cadavere: il massimo della nevrosi
Tralasciamo il fatto che Pokèmon Go viene usata non solo dai ragazzini, ma da un'ampia fascia di trentenni. Ma certi eventi confermano sempre più che l'umanità sta perdendo il lume della ragione.
Un veniseienne del Massachussets, mentre cercava di catturare un Pikachu, ha ben deciso di fermarsi nel bel mezzo dell'autostrada, causando un grave incidente. In preda al delirio, pare abbia detto agli inquirenti: «Se vuoi catturarli tutti devi rischiare tutto». Un altro “entusiasta” è finito in ospedale dopo essersi sfregiato l'occhio sinistro contro un ramo mentre cercava di catturarne uno.
Qualche furbone ha anche sfruttato la Pokemon mania a suo favore. Nel Missouri la Polizia ha arrestato quattro persone per rapina. I sospettati avrebbero utilizzato Pokèmon Go per attirare i malcapitati in luoghi nascosti e rapinarli. Altri ladruncoli, vista la diffusione del gioco, hanno creato una versione alternativa piena di virus, per cui, una volta aperta dall'ignaro utente, consente di controllare il telefono da remoto.
E, come per ogni fenomeno che si rispetti, ci sono in giro le storie più assurde. Pare che una ragazza, mentre si avvicinava alla recinzione per catturare l'ennesimo Pokèmon, al suo posto abbia trovato un cadavere. Oppure un signore cercava di catturare un Pidgey mentre la sventurata moglie era in preda alle doglie in sala parto.L'app è diventata in poco tempo così pericolosa da scatenare una campagna Twitter con l'hashtag #Don't Pokemon and Drive. Anche il dipartimento dei trasporti di Washington avrebbe severamente vietato di giocare con i Pokemòn alla guida.
"Gotta catch them all" (Catturali tutti!) recita lo slogan. Sì, ma i giocatori. Per farli rinsavire.