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Chi tutela gli autonomi se il tumore li colpisce? Afrodite K

«Lo Stato fa differenza tra i lavoratori. La malattia no». 

Una consapevolezza, questa, che colpisce forte e inattesa come un pugno in pieno viso. E che può rischiare di uccidere ancora prima della patologia fisica stessa. Questa è la storia di una donna che, vivendo sulla sua pelle tale condizione, ha deciso di iniziare una lotta che riguarda non solo lei, ma l’intera società.  

Presentati brevemente a chi non ti conosce. Di cosa ti occupavi e come erano scandite le tue giornate prima di ammalarti?

Mi chiamo Daniela Fregosi ma ormai tutti mi conoscono come Afrodite K, la 48enne che dopo un cancro al seno, ha preso le sembianze dell'eroina degli anni '80 che con le sue tette razzo combatteva a fianco di Mazinga Z. 

In questo caso però il vero nemico da sconfiggere non è stato per me la malattia ma piuttosto l'ingiustizia, le discriminazioni, gli infiniti stereotipi di cui sono oggetto i lavoratori autonomi colpiti da una malattia grave o prolungata. 

Perchè sì, il cancro me lo sono beccato a 45 anni, non da lavoratrice dipendente, ma dopo 22 anni di libera professione come consulente e formatrice aziendale su temi comportamentali in tutta Italia. 

Io ho sempre fatto la freelance a partita iva fin dai primissimi anni '90. 

E' una professione impegnativa che ho scelto e che mi ha portato ad intrecciare moltissime relazioni, con moltissime tipologie di interlocutori (committenti, partecipanti dei corsi, clienti, fornitori…) e a viaggiare molto.

Quali sono i problemi più urgenti e pressanti con cui deve confrontarsi una donna (nonchè lavoratrice autonoma) quando viene colpita da un tumore?

I problemi sono moltissimi e valgono sia per le donne che per gli uomini liberi professionisti (ed anche per patologie gravi ed invalidanti). 

In sintesi:

- Non esiste indennità di malattia (per esempio per artigiani e commercianti) oppure nei casi in cui esiste (per esempio per le  professioni ordinistiche ed i lavoratori afferenti alla Gestione Separata Inps) è altamente insufficiente (pochi giorni in un anno e pagati poco) per patologie gravi o prolungate.

- Il fatturato sparisce o si riduce molto per un bel pò di tempo e questo da subito. Al problema del fatturato si aggiunge quello dei costi extra che ovviamente per una partita iva pesano di più.

- I costi fissi che non si fermano (anche se il lavoro sì): commercialista, attrezzature, studio, tasse fisse ed indipendenti dal fatturato, acconti. 

- Cominciano ad arrivare le multe che una partita iva ammalata potrebbe trovarsi a pagare per essere stata al di sotto dei parametri stabiliti dagli studi di settore oppure dai debiti che si sono accumulati nel tempo e trasformati in cartelle esattoriali di Equitalia (con l'aggiunta di more ed aggio).

- Mancando un concreto aiuto economico attraverso l'indennità di malattia si può sempre sperare in quello associato ad un'invalidità civile superiore al 74%. Peccato che ormai l'Inps in deficit com'è deve vederti con un piede nella fossa per concedertela ed in ogni caso l'assegno (cifre pazze tipo 270euro) lo molla solo se hai un reddito non superiore a circa 4700euro all'anno oppure circa 11.000euro con un'invalidità al 100%

Ovviamente per un lavoratore autonomo fa testo la dichiarazione dei redditi dell'anno precedente, quando era sano. Geniale!

- I più fortunati tra gli autonomi si buttano allora sull'assegno ordinario di invalidità (indipendente dal reddito ma legato ad una capacità lavorativa inferiore ad 1/3). 

Peccato che quasi nessuno conosce questa opzione e se mai viene fuori, ormai è tardi, i sintomi che si avevano all'inizio si sono modificati ed alla visita medica Inps ti fottono. Ma del resto l'Inps mica è scema, durante la visita per la concessione dell'assegno ordinario di invalidità fa di tutto per innalzare la tua capacità lavorativa (a meno che tu non sia con un piede nella fossa ma a quel punto forse dell'assegno non t'importa più perchè stai organizzando il tuo funerale).

- Quando una partita iva si ammala gravemente, già c'ha i suoi pensieri, poi a questi deve aggiungere la difficoltà nell'accesso alle informazioni. Le poche tutele esistenti non sono conosciute ed i lavoratori autonomi manco provano a scoprirle convinti come sono che a loro tocca patire a testa china e basta.

- Il fermo lavorativo per un lavoratore autonomo è davvero un bel problema. Soprattutto per i professionisti ed i consulenti uscire dal giro e dal mercato per un pò non è davvero il massimo. Non solo saltano giornate di lavoro effettive magari già programmate ma risultano in pericolo anche quelle potenziali e future.

- Complicato davvero per un lavoratore autonomo gestire l'agenda e conciliare la malattia grave con le proprie attività lavorative. Ecco perchè molti lavoratori autonomi ammalati sentono la necessità di nascondersi. Se il cliente finale viene a sapere che hai un cancro fa poco self-marketing e rischi che non ti percepisca più affidabile e performante nel tempo.

Quali sono le lacune più gravi del sistema previdenziale e sanitario italiano  con cui deve scontrarsi un lavoratore autonomo?

Chiariamo che non è tanto una questione sanitaria: le cure sono assicurate a tutti (anche se chiaramente un professionista che per esempio viaggia molto per fare un esame di 5 minuti può magari perdere l'intera settimana lavorativa che avrebbe dovuto fare a centinaia di chilometri di distanza, mentre un dipendente può chiedere un permesso di 1 ora).

Sul lato del welfare, invece, da un lato le tutele sono o nulle o ridicole senza la possibilità, nella maggior parte dei casi, di compensare con  un'assicurazione privata visto che i contributi Inps e le tasse continuano a crescere vertiginosamente da un lato, la crisi economica incombe dall'altro ed avere una previdenza integrativa con un'adeguata copertura in caso di malattie gravi è praticamente impossibile ad una partita iva attuale. Non se la può permettere.

A novembre 2013 hai fondato il blog Afrodite K. 

In che modo questo “luogo” di condivisione e informazione sta cambiando la tua vita? Qual è il tuo “bilancio” dopo i suoi primi due anni e mezzo?

La mia vita l'ha cambiata (ma del resto questo riguarda l'intera battaglia che sto portando avanti da 2 anni e mezzo con tutte le numerose azioni collegate) sia perché è stato uno strumento per trasformare la rabbia ed il senso di ingiustizia (personali) in qualcosa di utile alla collettività ma anche perché mi sono scoperta blogger, opinionista e giornalista (il blog ha ottimi accessi e sono seguita ed interpellata da politici, media e cittadini). 

Adesso il Blog rappresenta a tutti gli effetti un punto di riferimento per informazioni, pensiero critico, approfondimenti riguardanti sia la tutela della malattia per i lavoratori autonomi ma anche gli stili di vita sani (alimentazione, meditazione, reiki, movimento...tutte attività con cui mi prendo cura di me e che divulgo). 

Non solo, il Blog veicola anche nuovi paradigmi (già diffusi all'estero) con cui raccontare il tumore al seno al di là del rosa dilagante che ormai ha trasformato una grave malattia in qualcosa di fortemente edulcorato, quasi “figo”, oggetto spesso di business e pinkwashing e complice nel continuare a veicolare un'immagine della donna ingabbiata in stereotipi e nel mantra del “dover essere”.

Cosa devono fare le istituzioni per far sì che i lavoratori autonomi abbiano finalmente le stesse tutele di quelli dipendenti, in caso di malattia?

Semplice, rendere operative le richieste contenute nella PetizioneDiritti e tutela per i lavoratori autonomi che si ammalano” che ho lanciato e che sta raggiungendo le 104.000 firme:

1.    Indennità di malattia che copra l'intero periodo di inattività (i 61 giorni massimo in un anno concessi alla gestione Separata Inps sono ovviamente ridicoli in caso di patologie gravi e prolungate);

2.    Indennità di malattia a chi abbia un minimo contributivo all’INPS di almeno 3 annualità nel corso della sua intera vita lavorativa (e non solo negli ultimi 12 mesi perchè questo penalizza chi ha versato per una vita ma nell'ultimo hanno, prima di ammalarsi, ha avuto la sfortuna di lavorare di meno);

3.    Ridefinizione delle indennità economiche su valori che siano effettivamente sostitutivi del reddito (80% del reddito per la malattia ospedalizzata e 30% per quella domiciliare), usando come parametro il reddito percepito prima della malattia;

4.    Indennizzo economico che permetta l'equiparazione tra malattia e degenza ospedaliera in caso di terapie invasive (chemio, radio etc);

5.    Riconoscimento della copertura pensionistica figurativa per tutto il periodo della malattia;

6.    Possibilità di sospendere e congelare tutti i pagamenti (INPS, IRPEF....), che saranno poi dilazionati e versati a partire dalla piena ripresa lavorativa (e senza l'applicazione di more perchè non si può tassare una malattia);

7.    Esclusione "certa" dagli studi di settore e non sulla base del buon senso.

Qualcosa di buono ne verrà fuori di sicuro! 

I punti 4 e 6 sono stati accolti nel testo dello Statuto dei lavoratori autonomi che il Consiglio dei Ministri ha varato e che attualmente è in discussione in Commissione Lavoro al Senato. Inoltre parallelamente ho avviato una causa legale (una sorta di class action) che ha l'obiettivo di far arrivare alla Corte Costituzionale l'iniquo e discriminatorio trattamento delle partite iva in caso di malattia. 

Francesca Garrisi

 
 

Sanatoria fiscale e abolizione CRIF: le proposte delle Partite Iva contro la crisi

E se lo Stato ti chiedesse indietro gli 80 euro del bonus?


 

 
 
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Capitale umano: Finlandia’s got talent

Se il nostro Paese fosse un animale, quasi certamente si tratterebbe di una cicala

Il fenomeno della cosiddetta fuga dei cervelli ha “radici” nell’adolescenza: il “menu” didattico e culturale offerto ai ragazzi non è sufficientemente appetibile da valorizzarli e permettere di sviluppare il potenziale personale. Così, circa un quarto del talento dei 14enni va “in fumo”.

Nel Human Capital Index 2016, classifica stilata dal World Economic Forum, l’Italia è 34esima su 130 Paesi. I primi posti se li aggiudicano, nell’ordine, Finlandia, Norvegia e Svizzera. Seguono Giappone, Svezia, Nuova Zelanda, Danimarca, Olanda e Canada. Noi siamo penultimi all’interno dell’area industrializzata.

Il punteggio complessivo del nostro Paese è 76%, a fronte dell’86% che si è guadagnato la Finlandia.

Il sistema scolastico dei nordeuropei ha molteplici, sostanziali, ricadute positive sui giovani. Le performance ottenute nei test internazionali sono le più alte, il gap tra i punteggi dei più meritevoli e dei più deboli è limitato, e, complessivamente, sono in pochi a ottenere risultati bassi. Il tutto, a fronte di una “macchina formativa” decisamente sostenibile, grazie ai suoi costi modesti e caratterizzata dal principio di equità.

Quali sono i fattori di questo spiccato successo didattico?

C’è un’unica scuola di base, che comincia a 7 e non 6 anni. Non esiste la primina. La famiglia non deve sostenere alcuna spesa. Tutti i bambini sono trattati allo stesso modo.

La formazione degli insegnanti è incentrata sulla ricerca scientifica

Fino agli anni Settanta questi studiavano negli istituti magistrali. Dopo la loro chiusura, ne hanno assunto il ruolo le università.

L’insegnante gode di fiducia e rispetto da parte dell’opinione pubblica, che ne riconosce preparazione e competenza. Chi lavora nelle scuole è uno specialista, e in quanto tale, sa di cosa hanno bisogno i bambini per crescere esprimendo le proprie peculiarità e talenti. Non esiste l’opzione bocciatura. Gli studenti liceali sostengono la maturità (l’unico esame previsto a livello nazionale) solo quando si sentono preparati, e dopo essersi confrontati con i docenti.

Niente voti né test durante la scuola primaria. Le uniche valutazioni ammesse sono quelle descrittive.

Le scuole godono di un ampio margine di autonomia. All’interno di ciascun istituto responsabilità e decisioni sono frutto di una condivisione sistematica tra personale e dirigenti. Le famiglie vengono costantemente consultate e coinvolte.

Questa analisi mi ha fatta riflettere su varie cose. Tanto per cominciare, dove l’istruzione è realmente gratuita, gli effetti sulla popolazione scolastica sono positivi, e su vasta scala. Questo perché, effettivamente, tutti i bambini partono dalla medesima posizione, e questo li permette di sviluppare serenamente abilità e competenze individuali.

Ancora una volta, la consapevolezza che è più importante osare, sperimentare, battere sentieri poco noti, che omogeneizzarsi e omologare metodo e contenuti premia. Perché mette al centro il fattore umano. Lo rispetta, e lo rende misura di tutto il resto.  E se  riuscito a farlo con risultati sorprendenti un popolo che non ha per le mani altro che foresta e pesca, quali effetti potrebbero esserci in un Paese come il nostro, il cui bagaglio storico è sfacciatamente ricco e variegato?

Francesca Garrisi

 
 

 

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Kabir Mokamel: la street art non è solo Bansky

Il misterioso graffitaro di Bristol è stato positivamente definito "il terrorista dell’arte".

 

 BanskyAlcune delle sue opere sono ormai universalmente riconoscibili,  fanno bella mostra di sé su gadget e magliette, spuntano da ogni angolo dei social network. Gli è stata addirittura dedicata una mostra (a sua insaputa, pare).  Ma non esiste solo Bansky. La street art è una  sottocultura che si estende a macchia d’olio su muri e pareti delle città di tutto il  mondo.

L’obiettivo più alto a cui può aspirare un artista è che l’allievo superi il maestro. Qui Bansky è fonte d’ispirazione inconsapevole, ma le opere di Kabir Mokamel non hanno niente da invidiare al più famoso collega inglese.

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BanskyQuarantaseienne originario di Kabul, Mokamel è tornato in patria dopo aver vissuto per anni in Australia. Il suo obiettivo è ricucire le ferite, curare con la bellezza e la nobiltà dell’arte  le brutture della guerra. Per questo colora muri abbandonati, macerie, edifici distrutti dai talebani.

Donne dallo sguardo intenso, bambini che trasportano cuori, un fucile che spara arcobaleni, un grosso cerotto sull’intero Afghanistan. La prima opera risale al 2015. Due  grandi occhi femminili sul tono dell’arancione. Si chiama Vi vedo e il titolo allude alle atrocità compiute dai nuclei estremisti. Messaggi di denuncia in un museo a cielo aperto che regalano speranza al popolo afghano.

La rivoluzione oggi si fa a colpi di bomboletta. Provate a non chiamarla arte. 

 

di IRENE CALTABIANO

 
 

 

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