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Perché ogni donna possa dire: «Anch’io sono bella. E lo sono a modo mio»

«La rivoluzione sta arrivando, ma partiamo dall’inizio; com’è nata? Un giorno la nostra follia ha incontrato un’azienda con un nome evocativo e due imprenditrici pronte a mettersi in gioco. Non poteva che nascere l’idea di un progetto insieme, per promuovere quello che per entrambi non è solo uno slogan ma un modo di pensare, di vivere: nella moda, come nella vita, bisogna saper essere se stessi, unici e diversi. Sempre». Hanno scelto queste parole Quelli Del Sabato, associazione di volontariato novarese che da quasi 25 anni si occupa di disabilità, per presentare l’ultima iniziativa, in ordine di tempo, che hanno promosso. Si tratta di una campagna di comunicazione sociale realizzata in collaborazione con Justmine, impresa italiana di beachwear. 
 
Nove donne disabili hanno disegnato altrettanti costumi da bagno, per poi vederli realizzati (su misura per loro) e quindi indossarli. L’obiettivo è quello di dimostrare, con efficacia e immediatezza, che il concetto di bellezza ha un numero pressochè infinito di declinazioni e manifestazioni. Perché la sua cifra peculiare e imprescindibile è l’unicità. 
«Per noi non esiste un modo unico di essere donne, di raccontarsi. E l’estetica deve convivere con il gusto e le esigenze dell’età, dei corpi e delle diverse culture».
 
 
 
Ciascun manifesto ha come protagoniste tre persone: una modella, una donna “comune” e una ragazza dell’associazione. «C’è una moda che è quella ufficiale, che viene comunicata dagli addetti ai lavori, che è interpretata dalle griffe ed è veicolata dalle riviste. Una moda che spesso diventa simbolo, icona, desiderio. Quella delle firme, delle sfilate, delle indossatrici che incarnano un ideale che negli anni diventa un riferimento da seguire o da sfuggire, a seconda della propria idea di bellezza. E poi c’è la moda di chi la sogna, e qui ci siamo inseriti noi. Per stimolare una riflessione e perché per noi la diversità è una ricchezza da salvaguardare».
 
 
 

 

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Il fascino indiscreto della violenza

Cosa  ci spinge a non averne mai abbastanza?

Perchè  le storie di assassini, femminicidi, stragi continuano ad esercitare su di noi un fascino incontrollabile? Al cinema, ma anche su social e piattaforme video, la violenza, insieme al sesso, sembra essere la calamita più potente per incollare lo spettatore allo schermo. Perchè  rimaniamo ad osservare un incidente stradale o siamo bramosi dei particolari di un delitto quando il copione è frequentemente lo stesso?

Le immagini crude atterriscono, indignano, spaventano ma, allo stesso tempo, attirano. Basti pensare come le esecuzioni messe in atto dagli jahidisti o  la notizia dell'ultimo stupro di gruppo risaltino ai nostri occhi molto più del cambiamento di un decreto legge o di un incremento delle nascite.

Il fascino della violenza  non è un fatto nuovo, se consideriamo che i nostri antenati  si affollavano attorno a ghigliottine  e  forche. E' anche vero che la cultura di massa ha donato un'estetica e nuovi canali di diffusione alla brutalità, creando una sorta di sottogenere che viaggia sul web più o meno indisturbato.

Tempo fa venne fatto un esperimento su Omegle, nota chat internazionale, basata sull'accoppiamento di due persone a caso in una conversazione virtuale. Il test voleva esaminare le reazioni degli utenti di fronte a una scena di improvvisa violenza domestica. L'attrice, mentre  chattava, veniva di colpo interrotta  da un  uomo che cominciava a picchiarla selvaggiamente. Solo  alla fine , se  l'utente risultava ancora in linea, veniva rivelata la messa in scena. Risultato? L'83% è rimasto in silenzio di fronte allo schermo a osservare mentre avveniva la lite. Solo tre persone su settanta hanno registrato l'accaduto per fornire alla ragazza le prove per denunciare l'aggressore.

Certo, l'anonimato è un buon incentivo. Nascosti e protetti dal nostro desktop possiamo dare sfogo alle pulsioni più recondite senza essere socialmente condannati. Anche i motori di ricerca lo sanno, infatti hanno inserito in massa l'opzione navigazione in incognito. Ma non è solo questo. Il nostro spirito aggressivo, sepolto da secoli di civilizzazione, sembra pronto a riemergere alla prima occasione, se opportunamente stimolato. Sarà la sensazione di sollievo nel non essere direttamente coinvolti? O il nostro istinto animale che a volte non ce la fa a rimanere sopito?

Attenzione, la violenza è anche potere e rischia di diventare cibo per le folle. I  veri crimini vengono attuati dietro le nostre spalle, mentre siamo impegnati a scoprire morbosamente quante coltellate ha ricevuto quella donna prima di accasciarsi per  terra in una pozza di sangue.

Irene Caltabiano

 

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Prime, un social per curare la schizofrenia

Il binomio tecnologia- medicina è in continuo sviluppo.
Oggi, anche se non si possono ancora debellare certe malattie, si riesce tuttavia a fornire validi supporti  per aiutare ad affrontare alcuni disagi. La dottoressa Danielle Shlosser, professoressa di psichiatria alla California University, sta sperimentando un’applicazione mobile in grado di connettere persone affette da schizofrenia. Purtroppo chi soffre di questi disturbi riscontra spesso difficoltà a relazionarsi con gli altri e questo provoca un grande senso di isolamento. 
 
Prime vuole essere un luogo in cui il paziente può trovare conforto e sostegno e chiedere consigli a chi sta vivendo le sue stesse esperienze, con l’obiettivo di farle sentire meno sole e migliorare la loro vita sociale. Nello stesso tempo, grazie a una connessione istantanea con i medici, può ottenere supporto immediato.
 
 
Il trattamento delle conseguenze  più terribili della schizofrenia come crisi e allucinazioni ha certamente  subito un notevole incremento.  I problemi meno evidenti come ansia e mancanza di comunicazione con i coetanei ivece non vengono presi in considerazione alla stessa maniera. Prime, mix tra social network e terapia on demand, vuole colmare le lacune lasciate dal trattamento chimico.
 
«I metodi tradizionali non portano sempre al successo perché richiedono di recarsi dal medico per poche ore a settimana, ore in cui al paziente vengono trasmesse una serie di informazioni che dovrebbe essere in grado di ricordare e sfruttare nei momenti critici della sua vita. Al contrario, con Prime le istruzioni e le informazioni sono a portata di mano, il supporto che offre è veloce e istantaneo » dice la Sheller.
 
Il primo social a scopo davvero sociale
Prime ha la stessa struttura di Facebook & Co: ogni paziente ha il proprio profilo in cui esprime interesse e stati d’animo e aggiornare il proprio stato e commentare post di altri utenti. Allo stesso tempo però ogni singolo contatto  viene associato a quello di pazienti simili che presentano la stessa sintomatologia, insieme a un coach che offre il supporto necessario. L’applicazione è stata pensata affinchè i pazienti vengano sostenuti a nel raggiungere piccoli obiettivi, come uscire per una passeggiata o andare al cinema. 
 
 Le cure sono efficaci
Sono stati già messi in atto i primi test sui pazienti.  Pineda, affetto da schizofrenia racconta la sensazione di sollievo dopo aver preso parte al progetto. «Prima di utilizzare Prime vivevo un conflitto di personalità, anche se ero circondato dalla mia famiglia mi sentivo solo e ansioso, nessuno dei miei parenti poteva capire quello che stavo vivendo, restavo sempre chiuso in casa e iniziai a prendere peso.  Mi sarebbe piaciuto andare in un ristorante, avere degli amici, ma avevo paura. Quando ho ricevuto la telefonata da parte del team della dottoressa Schlosser in cui mi è stato chiesto se volevo partecipare alla prova dell’applicazione , ho accettato subito».
 
Adesso Pineda ha perso peso  e sta creando una rete sociale con giovani che stanno vivendo la sua stessa esperienza. Anche Crandall Martin, altro paziente, ha espresso le sue sensazioni «Ora che lo studio di Prime è terminato, mi manca utilizzare l’applicazione, non avrei mai pensato che avrebbe avuto un impatto tale sulla mia vita».
 
 
 
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