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Se Google si fa tribunale, vince il nascondino dei reati?

Nascondere i panni sporchi sotto il tappeto, eliminare  link diffamatori dal web, veri o falsi, recenti o datati.
 In pochi click, ecco che la coscienza torna pulita, come se nulla fosse successo. Recentemente la Corte europea ha sancito la responsabilità di Google nel trattamento di dati personali, nel caso in cui un utente faccia esplicita richiesta di cancellazione di notizie negative sul suo conto. Ma è giusto che la conservazione di una buona fama a livello pubblico superi il diritto all’informazione?
 
I FATTI
All’origine della sentenza vi è il caso Google Spain. Un cittadino spagnolo aveva cercato di ottenere, prima dal gestore del sito e poi dall'azienda californiana, la rimozione di alcuni dati personali pubblicati su un articolo di giornale ritenuti non più attuali. Su ricorso dell’interessato, l’Agencia Española de Protección de Datos (AEPD), autorità iberica in campo di dati personali, aveva ordinato al colosso di Silicon Valley di rimuovere i dati in questione dai risultati generati attraverso il motore di ricerca. Nello stesso anno, il 17 dicembre 2014, un avvocato della Capitale chiedeva a Google di deindicizzare 14 risultati di ricerca che vedevano il ricorrente protagonista di un’incresciosa vicenda giudiziaria.  Si trattava di notizie di cronaca relative a un reato del 2012/2013 che lo vedeva implicato, insieme ad altri personaggi romani, in presunte truffe e guadagni illeciti. La sentenza di condanna non era mai stata effettivamente pronunciata: l’ avvocato chiedeva così alla controparte almeno 1000 euro di risarcimento.
 
QUAL È IL RUOLO DI GOOGLE
In seguito a fatti simili, Google è stato più volte chiamato in causa. Nel 2014 si adegua alla recente decisione della Corte di giustizia europea sul  ''diritto all'oblio'', mettendo a disposizione un modulo da compilare direttamente sul web. 
Un portavoce rileva che «per ottemperare alla recente decisione della Corte Europea, abbiamo reso disponibile online un formulario attraverso cui gli europei possono chiedere la rimozione di risultati dal nostro motore di ricerca. La decisione della Corte richiede a Google di prendere decisioni difficili in merito al diritto di un individuo all'oblio e al diritto del pubblico di accedere all'informazione. Stiamo creando un comitato consultivo di esperti che analizzi attentamente questi temi. Inoltre, nell'implementare questa decisione coopereremo con i Garanti della Privacy e altre autorità».
 
L'azienda californiana inizialmente non era stata così docile, affermando di non essere responsabile di contenuti pubblicati da terzi e ponendosi come semplice entità raccoglitrice di informazione.  L’UE l’aveva comunque richiamata a una certa presa di coscienza,  intimando di oscurare e deindicizzare i risultati di carattere personale nel caso in cui ci fossero gli estremi per farlo. Quindi è Google stessa che decide quali richieste prendere in carica. 
 
Il provvedimento che doveva ridimensionare  Big G gli ha donato, di fatto,  ancora più potere. Google si è trovata a gestire la cancellazione di notizie obsolete, fotografie che ritraggono persone che non vogliono più essere associate ad altre,  in pose indecenti o situazioni imbarazzanti. Il gigante di Silicon Valley si sarebbe quindi trasformato in un tribunale online, al ritmo di 572 richieste al giorno.
 
MA È GIUSTO?
Nonostante la collaborazione con i Garanti della privacy dei diversi paesi europei, siamo di fronte a una tendenza per cui la giustizia diventa sempre più un fatto d'azienda, da sbrigare online, da organi che hanno il dovere di collaborare ma che, a mio parere, non possono avere la stessa autorità  di giudici terzi.
La possibilità di Google di eliminare link non solo dà ancora maggior potere sulla gestione del traffico ma lo erge a una sorta di deus ex machina che può operare senza grosso tramite, decidendo cosa valga la pena o meno che resti pubblico. Qual è la soluzione all’altalena tra organi giudiziari  reali e trattamento dei dati personali virtuali? Organi imparziali ed indipendenti da qualsiasi tipo di interesse. Forse si dovrebbe investire  nella formazione di figure apposite, che siano grandi conoscitori del web e del diritto. Sennò potremmo svegliarci fra vent’anni consapevoli che la giustizia è in mano agli interessi dei big della tecnologia. 
 
 
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YouTube e l'advertising a tutti i costi

YouTube non demorde: la pubblicità s’ha da fare. 
Così la piattaforma, attraverso Google Adwords introduce Bumper Ads, video di sei secondi impossibili da evitare. L’idea nasce sulla base  dell’aumento del traffico mobile, che non prevedeva ancora un formato advertising ad hoc. 
 

Audi, l’azienda automobilistica tedesca, ha già cominciato a utilizzare il mini banner. Atlantic Records, casa discografica, sta invece sfruttando il formato per presentare il disco della band inglese Rudimental: ogni Bumper mostra uno degli ospiti celebri dell’album. 
 

«Sono piccoli haiku degli annunci video» scrive Zach Lupei, Product  Manager di Video Ads: « Siamo esaltati all’idea di vedere come saranno sfruttati dalla community creativa». 
 
Caro Zach, visto il bombardamento pubblicitario continuo, noi lo siamo un po’ meno.
 
 
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Adi Shankar, il produttore cinematografico a prova di YouTube

YouTube, così "giovane" eppure così diffuso.
La piattaforma che quest’anno ha spento le undici candeline ha cambiato per sempre l’industria dell’intrattenimento, relegando in un angolo il palinsesto televisivo e il suo target ultracinquantenne. Come competere con un canale di distribuzione gratuito, libero e accessibile a tutti? Darwin insegna che la sopravvivenza non è questione di forza ma di adattamento.
 
Così televisione e cinema hanno dovuto reinvertarsi, in primis  per raggiungere il pubblico adolescenziale, principale spettatore presente e futuro.  YouTube non è sempre un competitor, ma può rappresentare un campo di sperimentazione, soprattutto nell'ambito della gestione dei contenuti. Gli youtubers, ragazzi che realizzano filmati il più delle volte amatoriali spaziando tra argomenti vari, collezionano migliaia di visualizzazioni. Il produttore cinematografico nel frattempo si morde le mani, non sapendo più che strategie adottare per portare la gente in sala. Spesso però si tratta solo di vedere le cose da un altro  punto di vista. 
 

YouTube sforna continuamente nuovi fenomeni, ma consente  di testare nuovi format a costo zero. Qui entra in gioco Adi Shankar. Mix tra un metallaro e un dark, a prima vista sembra un adolescente arrabbiato. Ma basta fare un giro sul suo canale per scoprire un giovane  produttore di Hollywood  che lavora nel campo dei corti indipendenti, con attori di primo piano.  Il nome  parla da sé: Bootleg universe, cioè registrazioni audio-video illegali. Perché? Sono corti che eludono le spese di produzione, spesso al limite del legale. Shankar riesce ad aggirare diverse clausole solo perchè i filmati  non risultano a scopo di lucro. A differenza di molti il giovane californiano ha scelto di non mescolare cinema e web, evitando di promuovere sulla piattaforma ciò che pochi mesi dopo verrà proiettato nelle sale.

Short-movies duri e violenti, con ambientazioni metropolitane. The Punisher: dirty laundry è stato il primo: in due anni ha collezionato due milioni di visualizzazioni. Una piccola comparsa di Ron Perlman e un approccio personale al personaggio di fumetti conosciuto come il Punitore. Venom,Truth in journalism  è invece incentrato su un supereroe dell’universo Marvel mai approdato al grande schermo. Ultimo arrivato del canale vede come protagonista James Van Der Breek, stella un po' in declino della fiction anni ’90 ( era il Dawson di Dawson’s creek per intenderci), che rivisita la figura del Power ranger in stile incattivito. Risultato? 3 milioni di visualizzazioni in pochissimo tempo e una diffida della casa madre dei guerrieri in armatura fluo nell’utilizzare i propri personaggi ( poi aggirata legalmente).Pochi mesi fa un’altra serie online, Jidge Dredd e un corto animato incentrato sulla figura di 007. 
 
Guadagna Shankar da tutto questo? No. Ma  YouTube è utile come contenitore di test, come campo di prova di giovani registi a cui è lecito dare una possibilità per dimostrare le proprie competenze. Shankar ha capito che il nuovo non è sempre il nemico, ma è necessario il know-how, la piena comprensione degli strumenti a disposizione. Elemento su cui i produttori italiani sono piuttosto reticenti.
 
 
Power Ranger unhatorized.  Guarda il video>>
 

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