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Se vendere aria diventa un lavoro

Una volta era qualità attribuita a politici e commercianti.  
Oggi , grazie al 27enne Leo De Watts, il commercio di aria è diventato un’attività a tempo pieno. Il giovane britannico ha imbottigliato e sigillato ermeticamente la brezza pulita del Galles, vendendola a cinesi benestanti , costretti a respirare quotidianamente lo smog pestilenziale delle loro città. Prezzo? Ottanta sterline ( circa 100 euro) per 580 millilitri di aria pulita. 
 
Aethaer, questo il nome dell’azienda messa in piedi da De Watts, manda ogni giorno squadre di  lavoratori  a scorrazzare per le campagne, dove riempiono i preziosi contenitori.  Addirittura possono essere fatte richieste ad hoc sulla provenienza: chi  vuole il vento delle alte vette, chi l'aria  della valle.  Inoltre, per il Capodanno cinese la compagnia ha lanciato  un set-regalo  da 15 vasi per la modica cifra di 888 sterline ( pari a circa 1000 euro). 
 
Idea per ricchi radical chic? Si, considerando che chi acquista un oggetto del genere, il 90% delle volte lo espone in casa come status symbol. Perché nessuno ci ha mai pensato prima? Forse perchè era un’idea troppo idiota per sperare che avesse successo. Invece guarda un po’? Alle stranezze dell’essere umano non c’è mai fine. Che mondo è un posto dove si deve comprare persino l’aria ( e soprattutto c’è chi lo fa)? Non sarebbe meglio impegnarsi per migliorare le condizioni ambientali anziché comprare la salute di qualcun altro?
 
 
E se si campasse letteralmente d'aria? Come fanno i respirariani.. Guarda il video
 
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Social advocacy: quando il dipendente diventa garante

Il mondo si divide in due categorie.
I nativi digitali, i millenials, quelli che un Nokia 3310 non sanno neanche cos’è e chi ancora non distingue un pc da una macchinetta per il caffè. E in mezzo? Al centro della disputa ci siamo noi, gli immigrati digitali; da bambini di fronte a un pallone, da lavoratori davanti a un pc.  Quelli che sanno bene o male cos’è un computer , riconoscono il tasto d’accensione e lo usano quotidianamente, ma devono sviluppare le loro digital media capabilities
 
Le competenze informatiche non servono solo al dipendente, ma sul lungo termine, risultano fondamentali per l'intera azienda. Le conseguenze sono infatti miglioramento del fatturato, riduzione di costi e fidelizzazione del cliente. Lebu, piattaforma dedicata al social learning, ha visto negli ultimi anni una significativa moltiplicazione  di imprese che vogliono incrementare le capacità digitali dei propri sottoposti. In una parola, aumentare la social advocacy. L’obiettivo è far si che i propri dipendenti condividano naturalmente contenuti dell’azienda di appartenenza. E questo avviene solo se  gli impiegati sono soddisfatti di lavoro e clima professionale ma soprattutto, se ciascuno ha  una formazione base sui meccanismi digitali. 
 
È stato calcolato che, se ciascun dipendente in un’azienda di medie dimensioni pubblicasse anche un solo contenuto al giorno in linea con il proprio lavoro (con una media di 250 contatti ciascuno), i follower  potrebbero passare in poco tempo da 5000 a 30000. Certamente non si può fare “di tutti i social un fascio”. Facebook e Twitter per esempio hanno target  e scopi diversi rispetto a LinkedIn.  Quest’ultimo infatti sarà maggiormente indicato per mantenere i contatti lavorativi e fidelizzare con nuove proposte. Peraltro, vista la costante velocità di evoluzione del mondo virtuale, la formazione deve essere continua. 
 
Digital awareness, virtual communication, self-empowerment, knowledge networking, creativity. Paroloni che possono essere riassunti in un solo concetto: sapersi muovere nell'universo informatico.  Secondo l’Osservatorio Hr  Innovation Practice della School of management del Politecnico di Milano, su un campione di 100 direttori di azienda, la conoscenza digitale è ormai prerogativa fondamentale.
 
Che fare? Armarsi di santa pazienza e non smettere mai di imparare. 
 
 
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Mukbang, l'evoluzione dei freak show

In principio fu 9 settimane e mezzo.

Kim Basinger e Mickey Rourke mitizzarono, nella celebre scena in cucina, il lato erotico del cibo.  Dalla leggendaria sequenza,  i feticisti alimentari sono usciti allo scoperto, addirittura categorizzati in una specifica tipologia:  il food porn. 

Evoluzione del "genere" e nuova tendenza del web è il mukbang, trend  coreano, che significa letteralmente “mangiare in onda”. Si, è quello che sembra: persone  nella maggioranza obese che,  tramite live streaming, consumano enormi quantità di cibo di fronte a una telecamera, mentre parlano con l’utente che si diverte a guardarle. Gli eating show vengono diffusi su Afreeca Tv, che funge da canale per trasformare i crediti in denaro e raccogliere "ordini extra". Esempio? Mangiare cibo in maniera più rumorosa o  richiedere al golosone di consumare un piatto in più. 
 
 Chiamatela stranezza, devianza, voyeurismo portato all’estremo. Sta di fatto che oltre 45mila sudcoreani guardano in media un video a sera di ciccioni che si ingozzano di schifezze. E che i protagonisti guadagnano 8mila euro al mese distruggendo il proprio corpo. Non so voi, ma trovo qualcosa di profondamente malsano in questo.  Il ritorno dei freak show, con tanto di donna cannone. I soliti asiatici, direte voi?  Il fenomeno si sta diffondendo  anche in Italia.
 
Perché  il mukbang ha avuto un tale successo? Più food-blogger, come Simon Stawski  e Park Seo-Yeon, rivelano che gli elementi vincenti  sono la solitudine e il cibo come esperienza condivisa. « Lo show- sostiene Park -funziona perché  si può comunicare con  migliaia di individui nelle proprie case.  A questo si può aggiungere il piacere fittizio che hanno le persone  nell’osservare qualcuno che mangia molto , soprattutto nei periodi di dieta ».
 
Alla faccia di chi ancora pensava che le donne vivessero di aria e insalatine.
 
 
Ecco il mukbanger più seguito del web...
 

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