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MySpace, l'araba fenice

«Come si cambia per non morire», cantava Fiorella Mannoia.
MySpace sembra aver fatto propria la massima e rinasce  ancora una volta dalle sue ceneri.   Qualche anno fa era stato rivalutato da Justin Timberlake, popstar benefattore, che aveva acquistato la piattaforma  per 35 milioni di dollari.  Nuova grafica e multifunzionalità per il social che fece la ricchezza di Mika, Arctic Monkeys e Lily Allen e che oggi combatte contro giganti come Spotify e YouTube
 
Il nonno dei social musicali ha cambiato look; lo  stile era prima fin troppo disordinato, causa pagine oltremodo personalizzabili; adesso  ha inserito testi adeguatamente formattati, navigazione simile a Pinterest e Tumblr e interfaccia sull’onda lunga di Windows 8. A prescindere dalla nuova estetica,  MySpace ormai punta tutto sul rapporto musica-utente.   Gli iscritti possono infatti cercare  le proprie star preferite, seguirne gli aggiornamenti, connettersi agli altri fan  e postare ciò che preferiscono.  Le band invece  inseriscono eventi, concerti o altri appuntamenti  d’interesse. 
 
 Sarà stato questo a convincere Time  Inc, azienda che vanta pubblicazioni come  People, Sports Illustrated, InStyle e Marie Claire, ad acquisire la vecchia gloria del file sharing?  Pare infatti che l’ingoblamento porterà la società di web editing  a guadagnare più dati di registrazione  per migliorare tecnologie pubblicitarie e qualità dei contenuti.  Peraltro Time Inc non aveva ancora messo mano  a un servizio espressamente dedicato alla musica e potrebbe scegliere di integrare MySpace nelle  edizioni online  delle sue riviste. 
 
Nostalgici non temete. Il “nostro spazio” non demorde. 
 
 
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Programmatori VS web designer: la legge del più forte

Word Press, Drupal, Wix.
Ecco i CMS open source, ovvero piattaforme che permettono, tramite template già preimpostati, di creare siti o blog gratuitamente. Tutto molto bello e democratico. Se non fosse che, chi ha studiato per anni come rendere accattivante una pagina web, è rimasto in un limbo indistinto,  indeciso se darsi all’ippica o reinventarsi.
 
In realtà, nonostante Internet esista da vent’anni, c’è ancora molta confusione sulla figura del web designer. Quest’essere mitologico, nelle grandi aziende, rappresenta l’anello di congiunzione tra il creativo e il programmatore. Un po’ artista, un po’ tecnico, deve ottimizzare i markup, cioè caratteri o icone che devono avere determinate funzioni all’interno di una piattaforma;  Questo evita non solo ai programmatori di rimettere mano alle aree dinamiche, ma investe il web designer di un ulteriore carica: parlare con il creativo, per semplificare la grafica che non dà gli effetti voluti. Più spesso invece, nelle piccole realtà o nello sconfinato mondo dei freelance, il web designer è il tutto fare, costruttore dell’intero sito, dalla programmazione all'estetica Oggi al malcapitato vengono richieste competenze che vanno dalla conoscenza del 3D , alla configurazione dei server, fino ai linguaggi informatici più utilizzati. 
 
Come direbbe Darwin, qui entra in gioco la sopravvivenza della specie. La bilancia pende assolutamente a favore dei programmatori, nel caso di un' eventuale scelta di una figura da assumere. Il programmer infatti può tranquillamente scaricare uno dei tanti template, bypassando la figura del web designer e sfruttando successivamente le sue competenze nel coding per evolvere la base già disponibile. Il web designer può anche costuire la grafica più potente del mondo, ma se  non sa nulla di Java o Python non andrà molto avanti.  
 
Oggi, peraltro, si sono aperte opportunità che surclassano anche l'esperto di informatica. Chi ha budget ridotto  può affidarsi a Facebook e alle sue fanpage, che, ai fini pratici, performano quanto un sito. Per non parlare di piattaforme come Square space o LiveRestò, sistemi all inclusive  che permettono lo sviluppo completo di un sito web, senza grandi skill pegresse.
 
Sarà forse l’estinzione della specie del web designer? No.  La categoria sarà destinata, armata di buona volontà, a convergere nella figura del programmatore o  sviluppare professionalità ancora nuove? Si. In fondo il darwinismo sociale affermava che a resistere non era il più forte fisicamente, ma il più capace di adattarsi all’ambiente circostante.
 
 
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Facebook combatte il razzismo online...ma non sa come

Online Civil Courage  Initiative.
Ma che nome altisonante Mr Zuckerberg! Questo il nome dell’operazione europea  che vuole combattere i messaggi d’odio nei riguardi di migranti, rifugiati e stranieri, favorendo il dialogo e tolleranza sul web. L’iniziativa, nata dalla mente di Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Big F, appare tanto nobile quanto fumosa. 
 
Cyberbullismo, razzismo, xenofobia sono mostri che non si deve mai smettere di affrontare; l’importante però è il know-how, avere una strategia precisa, soprattutto se ci si muove nel virtuale.  «Vogliamo fare di più che cancellare semplicemente i messaggi d’odio» ha detto la Sandberg. Ok, ma cosa esattamente? Nessuno è stato capace di spiegare nel dettaglio. Vien da pensare che, come in molti casi precedenti, si tratti di una grande questione d’immagine.
 
Ulteriore  conferma che l'iniziatava sia soltanto la maniera in cui Mark dimostra al mondo quanto i temi sociali siano cari  a Facebook  sta nel fatto che i fondi destinati all’operazione  equivalgono a circa un milione di euro. Un gesto caritatevole da parte di un’azienda che solo nel 2014 ha fatturato tredici miliardi. La causa scatenante della lotta allo xenofobo è stato il J’accuse di Heiko Maas, ministro della Giustizia dell’Spd ( Partito Socialdemocratico tedesco), che ha criticato il social, a suo parere troppo morbido nel gestire  pagine e commenti razzisti, richiedendo un maggior controllo.
 
Risultato? L’unico punto fermo dell’operazione è al momento una task force con sede a Berlino che eliminerà le opinioni sopra le righe. Ma è davvero possibile controllare il calderone dei contenuti che vengono pubblicati quotidianamente? I post razzisti non sono solo quelli presenti nelle pagine più esplicite. Serpeggiano nell’ironia più bieca, si nascondono tra gli utenti che credono a bufale che confermano l’ignoranza dei soggetti in questione. Esempio cardine è la pagina Facebook Vergogna finiamola fate girare, nata dalla mente geniale dei social media manager Claudia Vago e Luca Faenzi.  La community propone  foto di personaggi famosi attribuendogli atti osceni e identità fake. Nonostante la palese ironia, i pesci continuano ad abboccare. 
 
Un bell’applauso al signor Facebook, che vuole combattere il razzismo senza un piano d’azione. Sarà mica che Frankestein è sfuggito al controllo del suo creatore?
 
 
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