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Super indie games, quel filo rosso di memoria e ricordi

I videogiochi stanno andando verso direzioni sempre nuove. Meno azione , più pensiero. 
Esperienze forse meno adrenaliniche ma destinate a rimanere impresse nel lungo termine.  I super indie games lasciano spazio  a immagini e suono, toccando sfere emotive diverse rispetto ai classici  sparatutto.  A metà fra giochi indipendenti e blockbuster da centinaia di milioni, sono caratterizzati da argomenti non convenzionali associati a grande qualità tecnica e un budget consistente. 
 
Fratelli degli ethic games, sono contraddistinti da elementi metaforici e legame alla sfera emotiva e mnemonica, nonché da un amore per le storie ben strutturate, assimilabili ormai ad un film vissuto in prima persona.  Valiants Hearts, ambientato durante la prima guerra mondiale, segue la vicenda di quattro personaggi: Emile, padre francese costretto ad arruolarsi; Freddie, afroamericano in cerca di vendetta che si arruole nelle truppe francesi; Anna, giovane ragazza belga in cerca del padre che soccorre i soldati feriti; A completare il quadro Kar, soldato tedesco che vuole tornare in Francia da moglie e figlio.  Papo & Yo si muove invece in un mondo fantastico, partendo tuttavia da presupposti reali: un bambino di Bogotà che fugge da un padre violento e alcolizzato attraverso un portale magico. The Witness invece mette alla prova le nostre capacità logiche: ambientato su un’ isola sperduta, in stile Lost, in cui ci aspettano circa 700 puzzle da risolvere, ha fatto perdere il sonno a migliaia di persone.  Sono nati infatti forum ad hoc con consigli e dritte per risolvere gli indovinelli. 
 
Unravel, uno dei più recenti, ha come protagonista Yarni, creatura simile ai kodama giapponesi, personificazione delle relazioni affettive. Il pupazzetto, fatto di filo di spago rosso, deve letteralmente ricucire, raccogliendo ricordi, foto e immagini sbiadite, la rete  di una storia familiare. Grazie al suo gomitolo, salta, si appende, supera gli ostacoli. Proprio come ha fatto il suo inventore Martin Shalin quando si è trovato in cattive acque finanziarie per una commissione andata male. « Mi trovai con la prospettiva di dover chiudere lo studio. Andai in campeggio con la mia famiglia e mi venne in mente che avrei dovuto cambiare tutto e puntare su quel che davvero era importante per me. Tornai con questa idea, la proposi, tutti l’accolsero. Ritrovando un’energia nel lavoro che avevamo perso da tempo ».
 
Diverso quadro familiare viene rappresentato dal videogioco a tinte dark Ciò che rimane di Edith Finch, raccolta di racconti di una famiglia maledetta nello Stato di  Washington . Il gameplayer ha possibilità di scegliere quale membro della famiglia incarnare, attraversando diverse epoche storiche. La costante è vivere la vicenda in prima persona  e la morte di ciascun personaggio si decida di “interpretare”. Infine Edith capirà perché è l’unica componente dei Finch ad essere rimasta viva. 
 
La trama di Remember Me invece, ambientato in una Parigi cyber punk, potrebbe essere tranquillamente spunto per un film di fantascienza.  Nella capitale francese del 2084 la memoria è diventata un insieme di dati e i ricordi sono un business. Memorize è l’azienda in cui viene accumulato e conservato il passato delle persone, patrimonio manipolato per esercitare il controllo sulle persone.  Protagonista è Lilin, maestra nel suscitare i ricordi, e perciò invisa alla multinazionale. La Memorize cercherà di strapparle la memoria, pur non riuscendoci del tutto. L’obiettivo del videogioco sarà di recuperare i frammenti della vita di Lilin per porre fine ai soprusi dell’azienda. 
 
Emozioni e ricordi saranno anche irrilevanti rispetto ai fatti, come diceva il porotagonista di Memento. Ma  sono il nostro criterio di selezione della vita, virtuale o reale che sia. 
 
 
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Papa Francesco, il social media manager di Dio

Apre la Quaresima con Whatsapp, diffonde il Verbo su Twitter , lancia Keep lent,  social che propone il versetto del giorno.
Che Francesco sia un Papa sui generis si era capito fin dall’inizio. La sua capacità di utilizzo degli strumenti di comunicazione odierni è arrivata a farlo definire  un social vivente.  La differenza infatti non sta semplicemente nel quando, ma nel come.  Bergoglio intende la divulgazione  nel senso più alto del termine,  non come monologo, ma ascolto e attenzione all’altro. Cosa che, soprattutto su Internet, regno di autocelebrazione e di detentori di verità assoluta,  non avviene.  Sarà mica  la capacità di adattarsi ai mezzi della società cui vive, sottolineandone pregi e difetti, la sua grande forza?
 
  « La velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta. La varietà delle opinioni espresse può essere percepita come ricchezza, ma è anche possibile chiudersi in una sfera di informazioni che corrispondono solo alle nostre attese e alle nostre idee, o anche a determinati interessi politici ed economici altri ». Queste le parole di Bergoglio durante le 48esima giornata delle Comunicazioni sociali. Marshall McLuhan impallidirebbe. « Il coinvolgimento personale è la radice stessa dell’affidabilità di un comunicatore» continua.« Proprio per questo la testimonianza cristiana, grazie alla rete, può raggiungere le periferie esistenziali».
 
Credo che, al di là delle convinzioni religiose, Papa Francesco sia una personalità che ha qualcosa da insegnare, anche ai più 

astuti social media manager. Quale strategia di marketing è più efficace del credere in modo viscerale nel proprio "prodotto", tanto da esserne testimonial in prima persona? Ciò che per gli stratega della comunicazione è il target, per Francisco rappresenta il prossimo. 

Ci sarà un  esperto di marketing anche dietro Papa Francesco, come si scoprì qualche mese fa per il deludentissimo Gianni Morandi, che credevamo portatore sano di genuinità? Non penso, o comunque mi piace  credere che non sia così. I comportamenti di Francesco sono in linea con ciò che dice. Come non fidarti di uno che professa, nelle sue encicliche, che non sono le strategie comunicative a garantire bellezza, bontà e verità della comunicazione?
 
 
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Foodporn, l'appetito vien scattando

Foodporn si, Foodporn no.
La valanga di immagini di piatti raffinati, virtuosismi dello chef o  ricette fatte in casa, è una pratica talmente diffusa da essere diventata routine. Un trend inarrestabile che ha costretto i ristoranti ad alzare bandiera bianca. Se infatti una volta non era consentito fare foto alle pietanze perché considerato furto di proprietà intellettuale, oggi gli scatti al cibo sono un fiume in piena, un virus che viaggia su smartphone, tablet e pc. 
 
 Gli esausti chef si sono infine arresi al contagio. Secondo la filosofia del “Se non puoi uscire dal tunnel, arredalo”, hanno cominciato a considerare le immagini come pubblicità gratis. Nonostante sia fastidioso vedere le proprie creazioni circolare sul web prive di copyright, ingoiano il rospo.  Lasciare che i clienti postino le proprie opere culinarie è il male minore rispetto alla prospettiva di perdere avventori. 
 
Alcuni cuochi invece si sono sempre  mostrati d’accordo con la bizzarra pratica. Alain Ducasse, esponente della nouvelle

cuisine, dichiara: « Se il cibo è una gioia perché non dovrebbe essere condivisa? ». Anche  i cuochi nostrani non sono del tutto contrari. Andrea Bertoni o Alessandro Negrini  credono che la fotografia sia un modo interessante di raccontare il cibo come esperienza.

Basta che non si giunga al paradosso che i filtri servano più della forchetta. 
 
 
 
Aglio, olio e peperoncino...e il nostro chef lo conoscete?
 

 
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