Sto pensando ad Ilaria senza sosta negli ultimi giorni.
Provo ad immaginarne gli ultimi istanti.
A quanto debba essersi sentita persa e spaventata.
Al momento in cui ha realizzato di essere sola e che il suo corpo stava lasciando andare tutta la vita che ancora aveva da vivere.
Ne sto osservando le foto e con perizia, leggo ciò che le accompagnava.
Scruto la mimica di quel viso che si fermerà ai suoi 16 anni. Non ne matureranno le espressioni; non ricresceranno i capelli rasati; non vedrà rughe solcare quel dolce faccino nascosto da piercing e fumo di sigaretta; non placherà la paura di quegli occhi profondi e curiosi.
Il suo nome in questi giorni è noto a tutti e si aggiunge ad un elenco in continuo aggiornamento. Uno dei più recenti il ragazzino morto durante una serata al cocoricò di Riccione o il dodicenne in coma etilico per un mix di alcol e fumo.
16 anni!
12 anni!
Parliamo di bambini.
Ripenso a me alla loro età ed a tutti i tormenti che mi accompagnavano.
Ma io percorrevo i giorni dell’adolescenza (e la mia adolescenza non è certo cominciata a 12 anni!!!) quando per parlare con un’amica dovevo chiamare a casa sua e chiedere ai genitori il permesso di passarmela al telefono; quando durante le lezioni in classe dei messaggi ce li scambiavamo scritti su carta -rispettando la punteggiatura e la grammatica; quando, non essendo maggiorenne, a casa ci DOVEVO tornare prima che facesse buio. Le mie paure le scrivevo su un diario segreto che non davo in pasto alla folla ma chiudevo con un lucchetto e ne nascondevo pure le chiavi. Esistevano i “pen-friends” e inviavamo lettere da imbucare.
La vita era reale. Una così ampia rete sociale virtuale non prendeva forma nemmeno attraverso la più fervida immaginazione.
Ho sempre avuto fiducia nell’evoluzione e nel cambiamento tuttavia credo fermamente che ci stiamo perdendo.
Tutto il malessere che prende dimora nell’animo delle nuove generazioni non riesce a fluire che attraverso la piattaforma virtuale.
Può un essere umano formarsi emotivamente senza mai sentirsi accolto da un abbraccio reale, da un sorriso che non sia fatto di punteggiatura, da un qualche contatto epidermico?
La famiglia non possiede più quella centralità e quel potere che riuscivano a porre le basi dei propri figli affinché potessero costruire il proprio orizzonte di senso.
È perdente rispetto ad un esterno così mastodontico e disorientante. Sta progressivamente perdendo tutto il suo valore e la sua sacralità.
Come prima istituzione è quella più danneggiata in questo tempo presente che poco bene lascia sperare per il tempo futuro.
E intendiamoci, non parlo necessariamente della famiglia cosiddetta tradizionale… assolutamente. Parlo semplicemente della famiglia sana. Quella in cui si comunica. Ci si siede a tavola insieme e si chiacchiera senza cellulare. Quella in cui le differenza generazionali si risolvono litigando di persona ed attraverso quelle piccole punizioni che ti insegnano il rispetto delle regole; quella in cui per un brutto voto a scuola è il ragazzo a doversi preoccupare e non l’insegnante a trovarsi di fronte un genitore che si atteggia a supereroe.
Probabilmente educare all’ascolto è l’unica strada che può ancora salvarci. Forse, se la prossima Ilaria si troverà di fianco qualcuno disposto a parlare con lei ed a coccolare i suoi tormenti, non avrà necessità di atti estremi per anestetizzare il suo sentire, forse la sua curiosità si indirizzerà verso esperienze di crescita e non di distruzione.
Onestamente la sola idea di poter un giorno mettere al mondo un figlio in questo contesto mi terrorizza. È una sfida fuori dalla portata di chiunque abbia un attimo di lucidità per guardarsi intorno.
Tuttavia coltivo la speranza che dopo un crollo etico e morale così profondo si possa ricominciare ad edificare su “vecchie” basi.
Vico ci parlava di corsi e ricorsi storici ed io voglio crederci.
Il mio pensiero va a tutte le anime bianche...tinte di nero.