“Definire la nostra società una democrazia è molto fuorviante. Non esiste una repubblica, non esiste una repubblica costituzionale."
Peter Thiel, imprenditore americano, grande investitore e fondatore del sistema di pagamenti on-line PayPal, ha tenuto un discorso molto interessante alla George Mason University sul sistema politico, ripreso dal Washington Post e commentato da M. Krieger sul suo blog.
Da un lato, Thiel ha identificato in modo accurato gli Stati Uniti come qualcosa di molto dissimile da una democrazia o da una repubblica costituzionale
“il sistema che abbiamo è tale per cui il potere è sempre più concentrato in agenzie non democratiche, tecnocratiche”.
Una repubblica modificata
Riprendendo quanto dichiarato da Peter Thiel nel corso dell'incontro alla George Mason: “Non è chiaro se viviamo in un sistema simile ad una democrazia. Stiamo vivendo in una repubblica che è stata modificata, in cui il sistema giudiziario è stato largamente sostituito da queste agenzie che guidano la fase decisionale”.
E ancora: “Definire la nostra società una democrazia è molto fuorviante. Non siamo una repubblica, non siamo una repubblica costituzionale. Viviamo in uno stato che è dominato da queste agenzie tecnocratiche”.
Le agenzie governative
Secondo Thiel è stato permesso ad organizzazioni come la Federal Reserve di “andare troppo oltre”. Nel definire le agenzie governative "profondamente sclerotihe e non funzionanti," Thiel ha portato l'esempio del fallimento del Dipartimento dell'Energia a Solyndra.
La Federal Reserve è un esempio emblematico: è davvero un ente pubblico o è un cartello bancario che agisce in collaborazione con il governo degli Stati Uniti?
Chi lavora veramente per la Federal Reserve? Cura gli interessi degli oligarchi finanziari o della classe media?
L'enorme successo del sistema della Federal Reserve nell'arricchire gli oligarchi finanziari a danno del resto della società, conclude Krieger, è stato imitato a livello generale di sistema fino ad arrivare a costruire un pasticcio di capitalismo malato oligarchico-centralizzato.
L’ironia è una dichiarazione di superiorità dell’uomo nei confronti di ciò che gli capita.
E il registro più utilizzato dentro questo bizzarro ristorante è proprio l’umorismo. Ce lo dicono i poster alle pareti, con locandine di film a tema ( In fuga da Alcatraz, Il miglio verde, Le ali della libertà), lo scambio di battute fra ospiti e camerieri, l’atmosfera accogliente.
Per entrare InGalera, ristorante nelle vicinanze del carcere di Bollate, non ci sono da superare lunghe file. Piuttosto, molti pregiudizi.
Si cerca così di esorcizzare, lato detenuto e cliente, una consapevolezza comune: lavorare lì dentro per aver commesso un reato. Ma, attraverso il cibo, è possibile ritrovare anche la dignità.
Una seconda possibilità
L’idea ha origine lontane, un progetto decennale portato avanti all’amministrazione del carcere assieme alla cooperativa sociale ABC, la sapienza in tavola e trasformatosi in un catering di alto livello per cerimonie e eventi. Iniziativa diventata poi un percorso scolastico, che ha portato all’interno della struttura docenti dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi. Risultato? Oggi sedici detenuti sono vicini al diploma e, finito di scontare la pena, avranno "un mestiere in mano".
Solo alcuni di loro appartengono allo staff del ristorante, quelli ammessi alla misura alternativa dell’articolo 21, cioè lavoro all’esterno e rientro in carcere la notte. I prescelti sono infatti coloro che devono scontare la pena più lunga, per garantire continuità sul lavoro e dare un senso all’investimento. «Vogliamo che la gente comune venga, veda e se vuole parli con chi ha commesso dei reati per riflettere su come questo possa essere un modo di superare il reato stesso» ha spiegato il direttore del carcere Massimo Parisi, che ha ricevuto molti complimenti riguardo all'iniziativa.
Smontare i pregiudizi tra i fornelli
Gli unici non reclusi sono lo chef Ivan Manzo e il mâitre Massimo Sestiti, affiancati da sette assunti dalla cooperativa più alcuni stagisti dell'Istituto alberghiero. Nessuno parla direttamente del crimine commesso. C’è chi lo rimuove completamente come
Azidin, che racconta di una precedente esperienza da cuoco e sembra fiducioso sul futuro. « Qui lavo i piatti, ma quando uscirò, tra otto anni, avrò un bel curriculum ».
Marco, milanese, quarant’anni, allude non senza una certa vergogna alle sue colpe.«In gioventù ho fatto l' alberghiero, ho anche avuto un bar e lavorato come receptionist in albergo, poi mi è capitato il danno...» spiega ad occhi bassi.
«Qui però ho ricominciato a lavorare in cucina, prima per i detenuti, ora per il ristorante, lo chef è bravo e ho imparato piatti nuovi; ho ancora sette anni da scontare e poi spero di avere il coraggio di aprire qualcosa di mio perché so che, comunque, sarò bollato a vita».
Un menu gourmet
Il menu è stagionale e ghiotto: dall’antipasto ai tentacoli croccanti su tagliatelle di verdure, ai ravioloni di fontina profumati al tartufo, al tortino di cioccolato su salsa di vaniglia. Per non parlare della carta dei vini, che non ha niente da invidiare ai ristoranti gourmet.
Le reazioni esterne sono state svariate. Chi ha accolto l’iniziativa con entusiasmo e chi sostiene che non verrà mai a mangiare servito da "pezzi di galera". Silvia Polleri, presidente della cooperativa ABC, accoglie la diffidenza come una sfida, un impegno a liberare i detenuti da uno stigma sociale.
« Per noi il progetto è come un figlio, coccolato e curato in ogni dettaglio. Puntiamo e siamo di alto profilo nel campo della ristorazione. Una vera e propria scommessa insomma, vogliamo il meglio, in tutti i sensi: perché più lo standard è alto più il percorso riabilitativo è qualificato».
Nel corso della storia ci sono stati tre grandi punti di svolta in campo socio-economico.
1784: nascita della macchina a vapore;
1870: si sviluppa la produzione di massa.
1970: avvento dell’informatica.
Nel frattempo è passato un altro mezzo secolo. Tempo sufficiente per guardare gli ultimi cinquant’anni con un certo distacco e racchiuderli sotto la definizione di Industria 4.0.
Cioè? La coesistenza uomo-macchina. Anzi. In alcune aree si può già tranquillamente fare a meno del cosiddetto “capitale umano” in favore di quello… “robotico”. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dagli scienziati Henning Kagermann, Wolf-Dieter Lukas e Wolfgang Wahlster durante la fiera di Hannover, evento sui nuovi processi industruiale di fama mondiale.
Intere aree produttive sono state dunque sostituite dalle intelligenze artificiali, certamente più rapide e meno costose. Sembra un paradosso, dal momento che si tratta sempre di creazioni frutto della mente umana. Ma se si può risparmiare tempo e denaro sarebbe stupido non farlo .
Nuove macro-aree professionali
Il lavoro del futuro si divide dunque in tre grandi sezioni di sviluppo.
1) Smart production: nuove tecnologie che creino collaborazione tra operatori e macchine
2) Smart service: creazione di infrastrutture informatiche che permettono di integrare le aziende tra loro e, a loro volta, con elementi esterni
3) Smart energy: creare nuovi sistemi energetici più performanti volti a ridurre gli sprechi di energia in nome dell’ecosostenibilità.
Il crollo delle certezze
Il progresso e il vantaggio economico risultano indiscussi. Ma, in tutto questo, l’uomo che fine fa? Di fronte a questa inarrestabile presa della Bastiglia in quanti modi ci dovremo reinventare?
Alcuni posti di lavoro saranno per forza destinati a soccombere in favore di nuove figure. Secondo il World Economic Forum con l’industria 4.0 verranno creati due milioni di posti di lavoro ma se ne perderanno altrettanti sette.
Il primo ad essere eliminato sarà lo zoccolo duro dell’area amministrativa, quel settore pubblico così presente nel nostro Paese e così attaccato alla propria poltrona, spesso senza meriti effettivi.
Creativi, è il vostro momento
Fantasiosi e inventori di tutto il mondo, unitevi.
La figura del creativo è stata e viene ancora spesso sottovalutata (e sottopagata). Nei prossimi anni invece potrebbe arrivare il momento di un cambio radicale di rotta.
Sembra banale, ma cosa ci distingue dalle macchine? La nostra umanità, dunque l’emotività e la capacità di fare associazione di idee, di dare ai progetti un tocco assolutamente originale, che diventa unico a seconda di competenze e caratteristiche individuali che ciascun componente di un team apporta a un progetto.
Tutte le aree legate al pensiero emotivo e strategico che siano in grado di indirizzare un’azienda difficilmente potranno essere sostituite da macchine.
Si comincia insomma a riattribuire alla creatività non quell’immagine di stravaganza artistotide ma quanto piuttosto una forma mentis che, con i tempi che corrono, può fare la differenza.
Pensare al di là di programmazione e schemi prefissati. E questo difficilmente potrà esser messo in atto da un computer.